Si ha la sensazione che le forze politiche, tutte, sia quelle che auspicavano il Sì, sia quelle del No, non abbiano compreso la lezione del referendum.
Questo invocare immediate elezioni appare privo di senso.
Come se non sapessero che in questo momento vi sono due leggi elettorali, una per la Camera e una per il Senato, completamente diverse: la prima sottoposta a giudizio della Corte e di carattere maggioritario; la seconda, uscita dalla Corte nel gennaio del 2014, sostanzialmente proporzionale.
Il semplicismo con cui si sostiene che si possa votare con queste due leggi, oppure che sia sufficiente copiare la legge della Camera emendata dalla Corte costituzionale anche per il Senato, per votare nel più breve tempo possibile, denota un’irresponsabilità di fondo.
Discutano e spieghino le forze politiche che legge elettorale vogliono e perché; raggiungano un accordo su questo tema e scrivano loro una legge elettorale in Parlamento, senza aspettare che sia la Corte costituzionale a confezionargliela.
La Corte può solo annullare — come già fece a suo tempo — le parti della legge che considera in conflitto con la Costituzione, può anche interpolare alcune disposizioni, ma non è un legislatore che dispone di discrezionalità politica, non può compiere quelle scelte politiche che sono proprie della classe politica che siede in Parlamento.
Non si tratta di decidere di andare a votare — decisione che spetta al Capo dello Stato, e sempre che si concretizzino determinate condizioni — ma di decidere “come” votare.
Le due leggi elettorali devono essere figlie di un disegno della rappresentanza politica coerente e non frutto del caso; nel definire quanta differenziazione ci debba essere, tra la legge della Camera e quella del Senato, occorre considerare quali elementi sociali si vuole sommare nelle due aule parlamentari, cercando di mantenere un equilibrio che consenta alle stesse di non porsi una uguale all’altra, ma neppure una contro l’altra.
Il problema della scelta del meccanismo elettorale — maggioritario, proporzionale, clausola di sbarramento, premio di maggioranza, coalizione, liste, un turno, due turni, ballottaggio, una scheda, due schede, eccetera — non è una questione meramente tecnica, da schivare; bensì, una questione politica connessa al popolo che si vuole rappresentare e al modo in cui questo popolo politicamente si atteggia in questo momento.
È ben noto che teoricamente potrebbero esserci tre poli pressappoco di eguale consistenza, ma è ben visibile che su un polo regna sovrana la frammentazione, su un altro la divisione e sul terzo è imminente l’avvio di una guerra per la designazione del candidato premier.
Di contro, i cittadini hanno con chiarezza fatto capire che non credono più alle favole. Sono andati a votare in quasi il 70 per cento per dimostrare che non credono che questa sia la volta buona; per trasmettere la sensazione che per loro l’Italia non è ripartita e che i problemi si stanno continuando ad ammassare.
E, in effetti, è così: il debito è cresciuto, mentre poteva diminuire; il Pil è tornato positivo, ma meno di quello degli altri e non per merito delle politiche interne, bensì del quantitative easing, del prezzo del greggio e del rapporto euro/dollaro; il lavoro scarseggia e la povertà aumenta, come pure l’emigrazione dei giovani. Le politiche interne sono state se non un disastro, quantomeno molto approssimative.
Non è vero poi che l’Europa è la causa dei nostri mali, ma semmai per noi resta — anche in crisi com’è — una possibilità di ripresa. Ci ha visto dilapidare delle opportunità e ci ha richiamato con prudenza a compiere i giusti passi. Anche adesso non pretende che facciamo tutto subito, sebbene i tempi si vadano stringendo.
Certamente nel prossimo futuro le scadenze europee saranno più precise: la prima sarà in primavera per la correzione del deficit e la seconda a fine 2017 con la prossima legge di bilancio che dovrà fare diminuire il debito.
Forze politiche responsabili, perciò, si siederebbero in Parlamento e si occuperebbero con spirito costruttivo e di collaborazione della legge elettorale, risolvendo i loro problemi e guardando ai cittadini.
Forze politiche responsabili non dovrebbero avere in mente di fare passi nell’interesse proprio, anziché nell’interesse del Paese e, per di più, cercando di condizionare la “guida” del Capo dello Stato.
Infatti, in questo momento, la guida dello Stato è stata assunta — come obbligo costituzionale, nascente dalla crisi — dal presidente della Repubblica e al capo riconosciuto della nazione si deve obbedienza nell’interesse dell’Italia.
Il presidente Mattarella con la sua riservatezza sta proteggendo l’Italia, per farle affrontare adeguatamente le prossime scadenze istituzionali, compresi i 70 anni dei trattati europei e il G7 di maggio.
Se il Presidente decide che è necessario formare un governo e procrastinare le elezioni sino a quando, anche alla luce della decisione della Consulta, il Parlamento non deliberi le nuove leggi elettorali, le forze politiche, tutte, hanno il dovere non solo di accettare questa decisione, ma anche di collaborare a realizzarla; senza rinunciare alla loro peculiarità politica, ma devono collaborare sino al giorno delle prossime elezioni, quando ritorneranno al centro della piazza.
Le forze politiche che saranno consultate faranno bene ad ascoltare ciò che il presidente Mattarella avrà loro da dire e a tenerne conto nell’atteggiamento da assumere durante la gestazione della soluzione della crisi.
Anche i cittadini italiani faranno bene a tenere d’occhio l’atteggiamento che le forze politiche assumeranno nei prossimi giorni e a ricordarsene al momento delle elezioni.