La fine del modello del governo “dei sindaci”. Probabilmente, uno dei messaggi più significativi provenienti dall’esito referendario è la presa d’atto del fallimento di un prototipo di governo e di una classe politica poco adeguata alle esigenze di guida di una Nazione. Il Governo che ha proposto la rabberciata riforma della Costituzione è chiarissima espressione del “partito dei sindaci”, a partire dal premier dimissionario che, come noto, ha fatto il salto diretto dal ruolo di primo cittadino a quello di presidente del Consiglio dei ministri, per passare a ex presidenti e direttori dell’Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani) o sindaci, che hanno influito in maniera evidentissima in questi anni e, soprattutto, in questi ultimi 33 mesi.
Il modo col quale sono state condotte e ideate le “riforme” rispecchia in modo molto chiaro esattamente ciò che accade nei comuni. Enti nei quali la verticalizzazione del potere, perseguita con la riforma della Costituzione, è realtà da molto tempo, dal 1993, da quando i sindaci sono eletti direttamente dal corpo elettorale, nominano loro assessori e dirigenti e da quando i consigli si sono ridotti, da organi di programmazione e controllo, a sbiadite assemblee di ratificatori e alzatori di mano di progetti elaborati dai sindaci, o di lamentazioni inutili di minoranze roche e senza poteri.
Dal 1990 a oggi moltissime riforme dei comuni hanno trasformato radicalmente questi enti, portandoli a un decisionismo compulsivo simile a quello che il premier dimissionario, conoscitore solo di quel modello di governo, ha inteso portare anche nell’ordinamento dello Stato. Le riforme dell’assetto di governo di questi ultimi 27 anni non solo hanno concentrato nei sindaci un potere immenso a discapito dei consigli, ma hanno scientemente perseguito l’eliminazione di qualsiasi controllo preventivo ed esterno di legittimità.
Il Parlamento, approvando una riforma frettolosa, contraddittoria, tecnicamente e giuridicamente estremamente debole e irta di problemi operativi, ha agito esattamente come quei sindaci che pensano di ovviare a leggi o regole che non piacciono, adottando regolamenti od ordinanze manifestamente contrarie a legge, pur di perseguire comunque i propri intenti. Contando sull’assenza di qualsiasi controllo efficace e sulla bassa probabilità di interventi della giustizia ordinaria o amministrativa: ecco perché quando qualche rada sentenza sanziona le varie illegittimità poi si inaspriscono i rapporti politica-magistratura.
La classe politica comunale è quella, spesso, convinta che basti un disegno di legge, cioè una semplice previsione di una possibile futura norma, per adottare decisioni già conformi a quella norma inesistente. L’accordo del 30 novembre con i sindacati, fatto passare come “rinnovo dei contratti pubblici”, quando è solo un’intesa astratta e generale che non produce nessun effetto giuridico, sembra esattamente figlio di questa visione.
Una classe politica come questa è quella che mal tollera non solo i controlli, ma interventi tecnici correttivi e imparziali alle direttive: per questo ha generato, senza portarla a termine, una riforma devastante come quella della dirigenza, volta a creare un insieme di dirigenti assertivi, cooptati per ragioni politiche e messi solo a dire sì e per giunta ad accollarsi al posto dei politici le responsabilità erariali di scelte dannose. Questa stessa classe politica, per queste ragioni, ha immaginato la necessità di eliminare i segretari comunali, da troppo tempo vissuti nei comuni non come aiuto indispensabile a coniugare legalità con rispetto delle direttive politiche, bensì come impedimento all’idea autocratica del potere, portata anche nello Stato. Un’idea che ha persino portato a saltare a piè pari poteri e prerogative, “appaltando” letteralmente la produzione normativa a soggetti non rappresentativi, come l’Agenzia delle entrate o l’Anac, chiamata letteralmente a “legiferare” nella materia degli appalti pubblici e della trasparenza.
Una classe politica che ha pensato possibile di riformare le province, portando alla devastazione istituzionale non solo degli enti, ma soprattutto dei servizi da loro resi, con una legge adottata “in attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione”: come se, appunto, un disegno di legge (in quel caso costituzionale) potesse fondare un potere riformatore.
Ma, l’idea che una semplice iniziativa legislativa, non ancora vigente ed efficace, basti si è anche estesa a un altro fondamento del convivere civile: la legge elettorale, con l’Italicum approvato solo per la Camera e non per il Senato, nella convinzione che esso sarebbe stato trasformato davvero nell’ircocervo che sarebbe divenuto, se fosse passata la riforma. Scelta, questa, approssimata, raffazzonata, sommaria, perfetto modello delle modalità decisionali della classe politica “dei sindaci”, che ora pesa come un macigno sul futuro immediato.
La bocciatura sonora della proposta di riforma della Costituzione è opportuno venga letta come uno stop definitivo ad un modo di intendere i poteri, i controlli, i pesi e i contrappesi, che ha prodotto comunque risultati scadenti, come dimostrano non solo gli indicatori dell’economia del Paese, ma proprio anche quelli del sistema dei comuni, pieno di debiti, caratterizzato da bilanci talmente falsati da aver indotto a una riforma della contabilità locale assurda, farraginosa, ingestibile, pensata per fare fronte alla totale assenza di controlli e contrappesi. Un modello da cancellare e ripensare profondamente, in modo che non solo non trovi più emuli nello Stato, ma cambi radicalmente anche il modo di operare nei comuni stessi.