Eppure Filippo Sensi l’aveva raccomandato! In un’apposita velina poi svelata da Dagospia, il portavoce del presidente del Consiglio aveva pur sempre sollecitato di vigilare contro i “bifolchi” del suffragio universale, contro quella parte di popolo che utilizza il voto per mandare a ramengo gli illuminati disegni dei nuovi custodi della sovranità popolare.
Nondimeno, per una curiosa casualità storica (l’ironia della storia è talora illuminante) tutto si è consumato nella medesima sera di domenica 4 dicembre 2016: mentre i “bifolchi” del voto bocciavano clamorosamente una riforma costituzionale senza capo né coda (ma dalla chiara impronta oligarchica), i Sioux della tribù di Standing Rock riuscivano nell’impresa insperata di arrestare la costruzione di un oleodotto destinato a impattare la riserva indiana; impresa che — proseguendo nell’analogia — lascia ben sperare per le sorti delle regioni costiere italiane. Quest’ultime hanno ingaggiato da mesi una resistenza altrettanto impari e decisiva contro quelle nuove ricerche petrolifere a ridosso dei confini marini, che sono state autorizzate dal Governo Renzi nonostante le contrarie rassicurazioni dispensate a piene mani dallo stesso nel corso della passata campagna referendaria sulle trivelle.
A fronte della valenza decisiva dimostrata dal voto popolare in questa come in altre occasioni, risalta la novità che si è manifestata il 4 dicembre; una novità che segna la differenza con il passato e che presenta i termini per un vero cambiamento. Occorre subito chiarire: non si è trattato di un voto di stampo populista e nel segno di una protesta cieca e senza prospettive; né tantomeno la clamorosa bocciatura della riforma scritta (e imposta) dal Governo è dipesa da quell’antipatia personale attribuita a Matteo Renzi, per avere occupato per mesi interi tutti gli schermi televisivi con un’inaudita aggressione verbale contro tutti i suoi critici.
In realtà, il clamoroso responso referendario a favore della conservazione anziché del cambiamento del regime costituzionale ha ragioni ben più solide e profonde. Per meglio comprendere il rilievo, basti raffrontare l’esito del ciclo dei referendum elettorali dei primi anni 90 con l’attuale tornata referendaria: gli uni, che aprirono la via alla Seconda Repubblica, l’altra, che ne ha invertito il percorso.
Anche allora il voto fu invocato per semplificare il sistema politico e per consentire l’affermazione del principio di governabilità. E anzi, il consenso referendario fu impiegato quale “grimaldello” (si disse proprio così) per scardinare il precedente modello parlamentare e per sbloccare lo sviluppo democratico. Nel confuso clima antipolitico provocato dall’esplosione di Tangentopoli, il messaggio fu sommariamente colto da un’opinione pubblica sempre più smarrita e condizionata dalla pressante propaganda mediatica. Ed è nella fiducia riposta verso le magnifiche sorti e progressive annunciate dai sacerdoti del cambiamento, che l’elettorato si pronunciò contro il precedente modello proporzionale e a favore di un nuovo sistema. Fu tale la partecipazione popolare che il presidente Scalfaro intimò al Parlamento di scrivere la nuova legge “sotto dettatura” del responso referendario.
E tuttavia non bastò (né sarebbe bastato) l’esito referendario per chiudere i conti con il passato e per aprire una nuova stagione istituzionale finalmente costruttiva. E anzi, l’effetto taumaturgico assicurato dagli alfieri del nuovo corso si risolse nella svendita economica del sistema Italia (come ha ben evidenziato Alessandro Mangia nel suo ultimo libro-intervista) e nella creazione di quel bipolarismo animalesco, famelico e inconcludente, che è stato all’origine dell’attuale crisi di sistema.
Non è accaduto così questa volta. Innanzi alla riproposizione delle medesime promesse referendarie di un sistema (addirittura costituzionale) semplificato, efficiente e stabile, l’elettorato ha opposto il proprio fermo rifiuto, imponendosi con una partecipazione imprevista e con un distacco del 20 per cento dei voti rispetto ai consensi governativi. Contrariamente a quanto accaduto nei primi anni 90, esso non si è fidato più delle rassicurazioni ricevute, né ha dato credito alla propaganda mediatica. In assenza di adeguate garanzie sull’effettiva democraticità del nuovo sistema e sugli esiti del relativo funzionamento, ha spento la televisione e ha trascurato i grandi giornali nazionali. Nell’accentuato scollamento fra le istituzioni e la società civile ha rifiutato nuovi salti nel buio e ha negato altre deleghe in bianco. Ha premiato la certezza di uno status quo riconosciuto come contraddittorio e improduttivo, pur di non favorire un sistema colmo d’incognite e peggiorativo dei propri diritti politici.
In tale inversione di orientamento risiede la parabola della Seconda Repubblica: nata dalla foga referendaria contro il passato, è finita per maturare a proprie spese la difficile salvaguardia del presente. Non è dunque il populismo ad avere vinto, ma la credibilità dei falsi innovatori ad avere perso. Hanno perso i giacobini delle nuove regole, gli avventurieri del cambiamento chiavi in mano, i profeti di un riformismo ansiogeno e intollerante verso le critiche.
Quali, dunque, le novità derivanti dal referendum del 4 dicembre? Una rilegittimazione della Costituzione del ’48 (come ha ben spiegato Mario Esposito su queste colonne) nel medesimo senso partecipativo e democratico, che ne contrassegnò l’origine; una riscoperta delle relative ragioni fondanti, che derivarono dall’essere stata intesa quale “casa comune” di un popolo plurale per tradizioni e appartenenze politiche, ma unito nel reciproco riconoscimento; una riaffermazione del diritto del popolo a essere governato secondo quella responsabilità politica, che invece è stata negata dai sistemi elettorali truffaldini partoriti dal Parlamento (Porcellum e Italicum); infine, un’esigenza di trasparenza e partecipazione nei circuiti decisionali propri del sistema democratico. Non si tratta di populismo, ma delle urgenze di un cambiamento che l’elettorato ha rivendicato come essenziali per la convivenza civile. Da subito.