“Deroghe e flessibilità: il modello Brexit che fa bene all’Unione”. Titolava così, ieri mattina sul Corriere della Sera, un intervento di Enzo Moavero Milanesi: ex ministro per gli Affari europei nei governi Monti e Letta dopo essere stato sottosegretario nel governo Ciampi. Un “eurocrate” a tutto tondo, Moavero Milanesi: capo di gabinetto dello stesso Mario Monti all’Antitrust di Bruxelles, giudice di primo grado alla Corte di giustizia di Lussemburgo, direttore generale del Bureau of European Policy Advisors, a fianco della Commissione Ue. Docente di diritto comunitario alla Bocconi e alla Luiss. Ora, nel febbraio 2016, un giurista-tecnocrate con questo curriculum sostiene che “Nella Ue maggiore integrazione non è un obbligo”.



Difficile pensare che per Moavero valga il ruvido tatticismo churchilliano per cui “solo gli sciocchi non cambiano mai idea”. Nell’apparente messa in discussione del rigorismo-integralismo europeo – alla fine interpretato dallo stesso governo Monti in chiave esecutiva delle “direttive” elaborate fra Bruxelles e Francoforte per conto di Parigi e Berlino – è invece leggibile il tentativo di iniziativa politica da parte di un establishment “europeista” ormai molto a disagio a 360 gradi: verso il centralismo tedesco, verso l’Ue basso-burocratica di Jean-Claude Juncker, ma anche verso le insofferenze di un premier nazionale come Matteo Renzi, spesso confinanti con il populismo anti-europeo (il diverbio fra Monti e Renzi, ieri sera al Senato, ne è parsa conferma inequivocabile).



Ma gli equivoci e i paradossi attorno al mantra della flessibilità non sono affatto pochi, anzi: replicano su ogni fronte la crisi strutturale dell’Unione. La richiesta di Londra di uno “statuto speciale” – simmetrico alla special relationship Gran Bretagna-Usa – può essere un’ipotesi di sviluppo smart della flessibilità, per un Paese già in parte offshore con la sua City. Ma già il mese di marzo – lo ha ricordato ieri con parole preoccupate il governatore della Banca d’Austria Ewald Nowotny – sarà decisivo per la flessibilità monetaria invocata con sempre maggior determinazione da Mario Draghi in vista del prossimo consiglio Bce.



Lo stesso Draghi è stato chiamato a Francoforte come rigorista monetario nel 2011, mentre nel 2012 è stato il promotore dell’Unione bancaria: cioè dell’integrazione rigida fra i sistemi bancari dell’eurozona. Oggi, in parallelo alla richiesta di una staffetta con la Fed sull’espansionismo monetario, Draghi è diventato parecchio “colomba” anche sul fronte creditizio: tenendo a freno la rigorista francese Danièle Nouy, capo della Vigilanza Bce, sulle regole patrimoniali. Ma proprio la Francia di Hollande – soprattutto dopo gli attacchi islamici e in vista delle presidenziali del 2017 – sta aprendo i cordoni della spesa pubblica alla voce “sicurezza”.

E sui migranti che razza di volatile è la Germaniia di Angela Merkel? “Falco” nel lasciare che Italia e Grecia – già colpite dal rigorismo tedescocentrico nei conti pubblici – se la sbrighino con gli sbarchi; “colomba” prima con i profughi siriani ai confini, poi con la controversa Turchia di Erdogan (anche con i quattrini italiani) perché gli stessi profughi vengano tenuti lontano dai confini tedeschi dopo i fatti di Colonia. E la questione libica? Quattro anni fa la Francia guidò altri falchi (Usa e Gran Bretagna) a radere al suolo il regime di Gheddafi sulla testa dell’Italia: oggi si intensifica il pressing su Roma perché si vesta da falco e bombardi l’Isis sulle coste libiche. Sull’accordo di Schengen, in ogni caso, l’Europa è ormai al massimo della “flessibilità” intesa come ritorno a quella forma elementare di autodeterminazione nazionale data dal filo spinato e dalle guardie confinarie.

Ce la faranno Cameron e Renzi, Hollande e Merkel, Draghi e Juncker a governare l’Europa smarrita fra rigidità insostenibile e flessibilità competitive “selvagge”? In democrazia – e l’Europa ne resta per ora la patria globale – la parola che conta alla fine è quella degli elettori. Entro il 2017 si terranno il referendum britannico, le elezioni presidenziali in Francia e quelle politiche in Germania. In Italia, sulla carta, si voterà nel 2018: ma chissà se e come Renzi interpreterà su questo terreno il mantra della flessibilità.