Tutti spiano tutto e tutti, da sempre: d’accordo. Gli Usa spiano più di tutti e – si suppone – meglio, con la tecnologia più avanzata e il budget più largo: d’accordo (anche se forse non è sempre così). L’Italia – paese vinto nel 1945, a lungo avamposto di Guerra Fredda e di trame mediorientali – è terreno di intelligence per eccellenza: d’accordo. Le vere domande attorno ai nuovi Berlusconi-leaks, sono altre.



Perché ora? Perché “rinarrare” in questi giorni l’estate del 2011, la defenestrazione del premier italiano in carica attraverso un gioco di pressioni di mercato e di diplomazia? Perché l’onnipresente “narratore” americano Edward Luttwak ricompare a confermare “una congiura benevola”? Perché coinvolge apertamente l’ex due-volte presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano? Non da ultimo: perché l’operazione avviene su Repubblica via cablo made in Assange, provoca una mini-crisi diplomatica fra Italia e Usa – e il Corriere della Sera ignora sia i leaks sia la convocazione dell’ambasciatore?



Azzardare risposte – o anche solo stabilire una gerarchia significativa fra i diversi fatti – è al di là dell’arduo. Una dietrologia elementare può ad esempio suggerire: a) Repubblica è il giornale più vicino al premier Matteo Renzi e per i suoi lettori Assange, gran trafugatore di segreti dell'”imperialismo” Usa, è fonte credibile, “gradita”;  b) Renzi è oggi sotto pressione “dall’Europa e dai mercati” come lo era Berlusconi cinque anni fa ed è stato giusto in questi giorni attaccato al Senato da Mario Monti, il premier tecnico fatto subentrare da Napolitano a Berlusconi; c) il Corriere – dove giusto in questi giorni Monti ha ripreso a scrivere, assieme all’ex direttore Ferruccio de Bortoli, critico di Renzi dalla prima ora – ignora intenzionalmente la “denuncia” di Repubblica e – forse non casualmente – insiste su altra attualità: le degenerazioni populiste del mantra rottamatorio del premier (caso Panebianco): oppure l’avvio della “giusta guerra” contro l’Isis in Libia, giusta anzitutto perché l’Italia è schierata a fianco degli Usa (solidi alleati, non pericolose spie).



Questa schematica rappresentazione mediatica condurrebbe dunque a questa ipotesi interpretativa: Renzi si sente veramente sotto scacco, per di più alla vigilia della visita a Roma del presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker. Una visita che – negli intenti – avrebbe dovuto chiudere una lunga fase di tensioni fra Roma e Bruxelles e invece potrebbe perfino prolungarla o aggravarla (perché Juncker ha in agenda anche un incontro con Napolitano?). Quindi: l’operazione Silvio-leaks – facilitata da un giornale vicino al premier  – avrebbe la finalità di smascherare né più né meno che il tentativo di replica del “complotto benevolo” del 2011 ai danni di Renzi. E non a caso Luttwak sarebbe subito corso a puntualizzare che se congiura fu, essa fu quasi esclusivamente europea, effetto “Sarkozy+Merkel”. Per il presidente Obama e l’amministrazione americana Berlusconi era “right”.

Il commento non è del tutto convincente: fu Standard & Poor’s ad avviare la destabilizzazione dell’Italia via spread, molto prima dei sorrisetti dei leader di Francia e Germania (e il segretario al Tesoro Tim Geithner emerge come “falco” verso l’Italia del Cavaliere). E poi a esprimere un parere pro-veritate sulla necessità di un’austerity durissima in Italia fu l’italiano Mario Draghi: non solo pre-designato alla Bce, ma anche banchiere solidamente legato al Fondo monetario internazionale e alla comunità finanziaria della City e di Wall Street.

Ma tutto o quasi – in questa vicenda – è opaco, sfuggente, non univoco. Con qualche aspetto umoristico: primo fra tutti che la Repubblica di Mario Calabresi si ritrova – nel 2016 – a “intercettare” nuovamente Berlusconi, ma non più sulla base di brogliacci usciti da qualche Procura per inchiodare l’ex Cav con dieci-cento-mille-domande. Stavolta, invece, a carpirne le telefonate diplomatiche (oltre naturalmente a quelle private…) è stato il Dipartimento di Stato: retto allora dall’attuale candidato democratico alla Casa Bianca Hillary Clinton. A proposito: in quella fatale estate del 2011 – in cui la nuova narrazione di Repubblica dipinge Berlusconi come vittima di interferenze Usa – fu combattuta la prima guerra di Libia. Giusto oggi gli Usa hanno fretta di combatterne un’altra: non più contro il colonnello Gheddafi, ma contro il caos-Isis che ne ha preso il posto.

Già, il calderone libico: quello dell'”incidente di Bengasi”, sul quale appena lo scorso ottobre la candidata Clinton è stata grigliata per 11 ore dal Congresso. L’ambasciatore Usa Christopher Stevens – “alto funzionario di professione” – ucciso: si continua a dire per un errore dell’allora capo della diplomazia Usa. E dell’attuale “candidata inevitabile” alla Casa Bianca si continua a lamentare la leggerezza nell’aver pasticciato con la mail, fra leaks dati e subiti (la cosa è stata citata proprio da Luttwak, intervistato dal Giornale su Silvio-leaks).

Che nell’estate 2011 le cose non siano andate come allora furono “narrate” è ormai quasi assodato nel dibattito pubblico. Chissà se ci vorranno cinque anni per ricostruire cosa sta accadendo in questi giorni. Sempre con l’Italia molto più tavolo di gioco che giocatore.