L’approvazione, giovedì scorso, del ddl Cirinnà da parte del Senato, che riguarda tanto le “unioni civili” quanto le “convivenze di fatto”, ha dato vita a una serie di dichiarazioni alquanto disparate, come quella che pretenderebbe ora di eliminare dal matrimonio l’obbligo di fedeltà tra i coniugi solo perché questo non è stato previsto per le unioni civili tra le persone dello stesso sesso.



In realtà, questa asimmetria è stata dettata al solo scopo di immaginare una differenziazione tra matrimonio e unioni civili, che altrimenti, con un’equiparazione totale, avrebbe quasi certamente condotto a una dichiarazione di incostituzionalità di queste ultime. 

Al netto di questa differenza, però, e anche se ancora manca l’adeguamento delle discipline collaterali come quelle relative al trattamento di reversibilità (rinviato ai futuri decreti del governo), l’unione civile del ddl Cirinnà non è altro che un matrimonio tra persone dello stesso sesso.



C’è anche lo stralcio della stepchild adoption, ovviamente, su cui tanto si è discusso in questo periodo, sia per la sua previsione, sia per la sua cancellazione dal testo approvato. Ma, in questo caso, la giurisprudenza dei giudici civili italiani è già più avanti della legge in itinere, per cui con molta probabilità al sacrificio formale della stepchild adoption farà seguito un consolidamento della linea che vede nel ricorso al giudice la soluzione concreta del problema.

Come sempre hanno vinto tutti. Il governo parla di un risultato storico. Un’altra riforma sul terreno dei diritti civili che mette in pari l’Italia con gli altri stati europei. Le pattuglie smarrite dei cattolici dem e non dem impegnati nella maggioranza di governo dichiarano che hanno consolidato l’azione di governo e impedito lo strappo delle coscienze, oltre a quello della maggioranza. Le opposizioni di centrodestra credono di aver impedito qualcosa contro natura (!) e il (furbo) M5s, alla fine, si è chiamato fuori.



Eppure le norme più subdole, dal punto di vista ideologico e costituzionale, contenute nel ddl Cirinnà, alla fine, non sono quelle che riguardano le unioni civili, ma la disciplina delle “convivenze di fatto”.

Infatti era impensabile, anche per le prese di posizione del Consiglio d’Europa, che l’Italia continuasse ad avere la lacuna di una qualche normativa per le unioni gay e, al di là del diffuso convincimento che dissente sull’adozione in unioni del genere, una normativa sul punto non poteva non approssimarsi al matrimonio; ovviamente non al matrimonio sacramento dei cattolici, ma a quello civile della Repubblica italiana, soprattutto da quando questa consente, ormai anche in modo alquanto rapido, di scioglierlo.

La fedeltà come obbligo, perciò, può considerarsi poco più di una foglia di fico e, se questa foglia servirà al giudice costituzionale per dichiarare la diversità tra i due istituti e per mandare assolta la futura legge, resta il fatto che unioni civili e matrimonio sono, anzi saranno, istituti civili affini, molto affini e quasi eguali.

Quanto alla stepchild adoption i giudici che hanno già pronunciato in tal senso non hanno tutti i torti, quando il riconoscimento dell’adozione affine diventa un modo per evitare un maggiore nocumento al minore. E, in effetti, il problema reale non è l’adozione in sé, quanto il modo in cui, in un’unione omossessuale e, in condizioni consimili, anche eterosessuale, il figlio è “prodotto”. Certamente, rispetto al nascituro, dobbiamo parlare di procreazione e di trasmissione della vita. Tuttavia, rispetto agli adulti che si prodigano per avere un figlio con pratiche che coinvolgono terze persone oltre i coniugi — e questo accade sempre nelle unioni gay — è difficile che sia un vero atto di amore. Il figlio diventa un “bene” desiderato per essere posseduto, non una persona cui donarsi, e, per il proprio egoismo, si giunge alla reificazione del terzo donatore, soprattutto se a pagamento. 

Questo nodo avrebbe richiesto un diverso dibattito pubblico e una consapevolezza sociale diversa da quella che — per richiamare categorie ampiamente criticate da Pier Paolo Pasolini — la società dei consumi e l’edonismo, su cui si fonda, ci impongono.

Alla fine, però, perché il legislatore non si è fermato lì? Perché ha voluto creare, accanto alle unioni civili, un matrimonio di serie B, con il “contratto di convivenza”, che può riguardare tutti, omo ed eterosessuali?

In fondo, potrebbe pensarsi che le unioni civili sarebbero state sufficienti a risolvere ogni problema: alle coppie etero si dava il matrimonio; per le coppie gay si istituiva l’unione civile. Tanto più che i vincoli di entrambi gli istituti possono essere consensualmente o unilateralmente sciolti.

La risposta più ovvia sembra essere che in una società che si va decomponendo rispetto ai valori tradizionali, cui la famiglia appartiene di certo, e si sta ricomponendo su situazioni di fatto, non valutabili e assiologicamente tendenzialmente indifferenti, la sfera della regolamentazione giuridica e soprattutto quella dei valori costituzionali, con il loro carico di doverosità, solidarietà e responsabilità, è diventata un peso insopportabile. L’idea che domina non è la libertà, che presuppone le regole; ma la liberazione da ogni vincolo, che sottopone le relazioni umane alla violenza e alla posizione di forza.

A questa logica risponde la “convivenza di fatto” cui si può porre fine uscendo, un mattino, di casa, o dando un preavviso di sfratto di novanta giorni al convivente.

Quando la legge sarà in vigore, questa sarà la parte più infelice e pericolosa; e tutti avranno perso, in nome del puro egoismo. 

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