Quando al telefono gli hanno comunicato che Alfio Marchini si era presentato a votare al gazebo della centralissima piazza Goldoni, Matteo Salvini ha capito di aver vinto la prima battaglia di Roma. Certo, la guerra intestina nel centrodestra nella capitale è ancora lunga, ma il leader leghista ha segnato un gol pesantissimo, fuori casa.
La principale sconfitta della disfida capitolina si chiama Giorgia Meloni, colta in contropiede dalla legittimazione che alle primarie leghiste ha fornito la partecipazione al voto non solo di Alfio Marchini, ma anche di Francesco Storace e dell’outsider Irene Pivetti.
La leader di Fratelli d’Italia paga a caro prezzo la scelta di non scendere in campo in prima persona. Tanto Salvini quanto Berlusconi l’avrebbero sostenuta a spada tratta, perché condividono la convinzione che si sarebbe trattato del candidato più competitivo per il centrodestra. Il suo rifiuto, unito al suo ostinato veto sul nome di Marchini, hanno fatto esplodere una guerra intestina che il segretario del Carroccio proprio non ha digerito.
Per lui la scelta imposta da Berlusconi è perdente. Troppo chiacchierato l’ex capo della Protezione civile, appesantito per di più da vicende giudiziarie relative alla ricostruzione dell’Aquila ancora tutte aperte. Salvini, dopo un sì iniziale ci ha ripensato, e ha deciso di rovesciare il tavolo.
E’ forte nello stato maggiore leghista il sospetto che in realtà non ci fosse tutta questa voglia di vincere a Roma, vuoi per le condizioni catastrofiche delle casse dell’amministrazione capitolina, vuoi per altre inconfessabili triangolazioni che poco hanno a a che fare con la politica. Una convinzione che si è fatta sempre più forte nel vedere i sondaggi dare incredibilmente in partita il centrodestra, purché unico e con un candidato decente.
Salvini poteva reagire a questa sorta di accerchiamento in due modi: o accettando la china discendente verso la sconfitta a Roma, oppure rovesciando il tavolo. Nel primo caso avrebbe potuto anche cinicamente rivoltare la débâcle contro Berlusconi contestandone una volta per tutte la leadership. Ma questo sarebbe accaduto sulle macerie. E ricostruire sulle macerie è sempre difficile. Obbligata quindi la seconda strada, che però nell’immediato è la più densa di incognite.
A Roma Salvini ha giocato d’anticipo rispetto al centrosinistra (primarie il 6 marzo), dimostrando che le primarie sono possibili anche nel centrodestra. E con soli 41 gazebo sventola oltre 10mila presenze, contro le 4mila delle comunarie grilline. Poco importa chi sarà il più votato, il dato politico più rilevante è che non sarà di certo Bertolaso, cosa che porrà Berlusconi di fronte a una scelta che dovrà compiere alla luce del sole: insistere, assumendosi per intero la responsabilità della sconfitta certa, oppure fare un passo indietro e ritirare il suo fedelissimo, accusando però in questo modo un colpo pesantissimo alla sua sempre più traballante leadership.
Sempre più fuori dei giochi la Meloni, che solo un anno fa (era il 28 febbraio 2015) saliva sul palco di Piazza del Popolo proprio assieme a Salvini, alla sua prima grande manifestazione nella capitale. I tatticismi della leader di Fratelli d’Italia l’hanno confinata in un angolo. E ormai il numero uno leghista si rivolge direttamente al suo elettorato senza più bisogno di mediazioni. Il capo della destra italiana è sempre più lui.
Partita tutta diversa è quella che Salvini sta tentando di giocare rispetto a Berlusconi e ai suoi elettori. Sinora i tentativi di sfondamento al centro non hanno dato i risultati sperati. Ma se la spallata padana sul Campidoglio dovesse portare frutto, sarebbe la consacrazione. Il nome giusto potrebbe essere quello di Marchini, per riprodurre un’operazione simile a quella di Brugnaro a Venezia, un mix di civismo e di partiti. In fondo, a Berlusconi il nome del costruttore che viene da sinistra non dispiaceva, e lo aveva scartato solo per far contenta la Meloni.
Se la ricucitura del centrodestra si dovesse rivelare impossibile, il nome a sorpresa potrebbe essere quello di Irene Pivetti, inserita all’ultimo fra i nomi dei papabili aspiranti alla candidatura a sindaco di Roma. E’ un clamoroso ritorno di fiamma quello dell’ex presidente della Camera, espulsa dalla Lega nel 1996 perché contraria alla secessione bossiana. Nella nuova Lega nazionale, carente di volti conosciuti, potrebbe tornare utile anche lei, che come presidente della Camera ha lasciato dietro di sé un buon ricordo.
La guerra di Roma è ancora lunga, però. Salvini ha solo vinto la prima battaglia, e il finale non è affatto scritto. Quel che è certo è che la fotografia di Bologna, il “tutti per uno, uno per tutti” con la Meloni e Berlusconi appare lontano anni luce, e non due soli mesi. Comunque vada a finire, sull’asse delle amministrative di Roma e Milano si gioca gran parte degli equilibri futuri del centrodestra e — di conseguenza — di chi potrà guidarlo verso lo scontro finale delle elezioni politiche.