Nel clima di incertezza generale, con l’Unione europea che si incaglia e si attorciglia sul problema dei migranti, con i nuovi dati economici che sono rivisti al ribasso e promettono solo nuovi problemi, al Partito democratico mancava solo la questione delle primarie, che sta diventando una sorta di “polveriera” prima delle prossime elezioni amministrative.



Sembra quasi un paradosso che il premier Matteo Renzi sia diventato il leader della speranza e del riscatto italiano in base alle primarie del Pd di oltre due anni fa e oggi si trovi a gestire contestazioni, malumori e ribellioni proprio su delle primarie, in teoria nuovo strumento di selezione della classe dirigente, in particolare quelle che si sono svolte a Napoli e a Roma.



Senza contare che a Milano ci sono grandi malumori, non solo “cinesi”, e in una città come Cosenza si è pensato di saltarle perché, all’interno del centrosinistra, il candidato di Scelta civica sembrava più forte di quello del Pd.

Analizziamo brevemente il problema che sta esplodendo in questo momento. A Napoli ci sono dei filmati, con tanto di sonoro, che mostrano alcuni sedicenti “leader” di strada che danno gli euro necessari al voto per sostenere Valeria Valente, candidata della segreteria nazionale, contro il ritorno del vecchio sindaco Antonio Bassolino. In definitiva, quasi una sorta di accattonaggio elettorale.



A Roma ci sono più schede che votanti, in un panorama di disaffezione che ha portato al voto meno della metà degli elettori delle ultime primarie, quelle che sancirono l’irruzione nella politica romana del sindaco “marziano” Ignazio Marino, con tutte le conseguenze che si sono viste in questi mesi. Il commento del presidente del Pd, Matteo Orfini, non è stato dei più azzeccati. In pratica, Orfini ha spiegato il calo dei votanti con lo “sfoltimento giudiziario” del partito dopo la scoperta di “Mafia capitale”. Forse non si è reso ben conto di quello che ha detto. Il risultato di questa dichiarazione è il probabile rafforzamento nella capitale della lista di sinistra di Stefano Fassina, mentre fioccano i giudizi al “curaro” sullo stato del Pd di Massimo D’Alema, di molti altri “rottamati” e degli esponenti della sinistra interna.

A Napoli, contro il “mercimonio” Bassolino ha fatto ricorso, di facciata come suol dirsi, perché aveva subito dichiarato “la sentenza è già scritta”. In effetti, la risposta al ricorso di Antonio Bassolino è stata: “irricevibile”.

Non ci vuole molto a comprendere che, dopo i casi avvenuti lo scorso anno, con la sconfitta in Liguria e l’uscita dal partito di un personaggio della storia della sinistra italiana come Sergio Cofferati, dopo l’astensione al voto persino in Emilia Romagna e altri casi di contestazione (per Napoli c’è stato un precedente importante), si formeranno con tutta probabilità delle liste di “disturbo” a sinistra (se ne parla ormai anche a Milano) che finiranno probabilmente con l’indebolire il Pd.

Ma il nodo della questione resta lo strumento delle primarie, la validità di primarie come quelle che sta svolgendo il Pd. Non c’è dubbio che le primarie siano uno strumento di democrazia e di partecipazione. Ma sono state prese, quasi copiate, in un contesto che è differente da quello italiano, e non regolate come sarebbe stato normale, non inserite con la doverosa accortezza nella realtà italiana.

E’ certo che il risultato di Renzi alle primarie della segreteria del Pd, quella corsa che poi gli aprì la strada per Palazzo Chigi, fu un risultato veritiero, corrispondente alla realtà per quanto riguardava gli umori interni al partito. Pierluigi Bersani, il vecchio segretario, aveva paralizzato praticamente il Paese, non solo il Pd, con un’affannosa ricerca d’intesa con l’emergente Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.

Ma da un’emergenza politica non si esce solo con il modo in cui sinora si sono condotte le primarie in Italia, in totale assenza di regole, controlli e consuetudini. Alla fine questo sistema, non regolato, può diventare un boomerang micidiale.

Cerchiamo di spiegare. Le primarie nascono e crescono nei partiti degli Stati Uniti, nei singoli stati dell’Unione, con modalità differenti, ma sorrette da una consuetudine di partecipazione democratica consolidata. In alcuni stati ci sono liste di iscritti al voto, in altri stati ci sono votazioni libere simili a quelle del Pd, ma con osservatori su ogni voto e su ogni scheda. E’ difficile sgarrare. Anche se è l’antica consuetudine condivisa della democrazia americana ad assicurare una sostanziale grande correttezza.

La stessa partecipazione non è mai episodica, ma occupa a quasi un anno di “full immersion” politica. E alla fine, nelle “convention” prima del voto, se nessun candidato ha la maggioranza dei voti, si trova la correzione necessaria. Fu trovata per un grande residente democratico come Franklin Delano Roosevelt.

E’ difficile immaginare un simile sistema in Italia, senza regole precise. Così com’è impossibile mutuare un ricambio della classe dirigente come sul modello inglese. Nel Paese di sua Maestà, in Gran Bretagna, c’è una costituzione non scritta da 800 anni, ci sono due grandi partiti da 300, con poche varianti spesso irrilevanti, non c’è inno nazionale, la stessa bandiera, la famosa “Union Jack”, è una sorta di puzzle che ricorda e suggella l’unione di vari regni. La consuetudine è una fonte inesauribile di diritto e, ora che le Trade Unions hanno un peso più limitato nello stesso Partito laburista, il ricambio della classe dirigente si trova nel “governo ombra”, cioè nella più forte opposizione in Parlamento al governo di sua Maestà.

I superstiti italiani della cosiddetta “rivoluzione di velluto” del 1992 si sono trovati orfani di un po’ di cose. In primo luogo di cinque partiti democratici “liquidati” per via giudiziaria, un “caso di scuola” che andrebbe studiato attentamente. 

Ma anche i superstiti erano orfani, perché il Pci non poteva più chiamarsi Pci per via del crollo dell’Urss e la Dc rimase monca della sua parte maggioritaria. Sono seguiti anni a sinistra di formazioni politiche vecchie, con un nuovo nome botanico. Poi più tradizionale. Mentre a destra c’era un “padre-padrone” che decideva linea e destini.

Se a destra non si poneva, il ricambio della classe dirigente è diventato problematico a sinistra, soprattutto perché si era perso un reale insediamento territoriale e la cadenza congressuale che decideva grandi scelte e programmi.

In realtà il vuoto lasciato dai vecchi partiti è stato spaventoso e non è stato ancora colmato da nessuno. La scelta delle primarie a sinistra esce quindi da un’esigenza di partecipazione e di ricambio, ma è legata a episodi, non è una consuetudine acquisita, non ha gli strumenti per essere regolata senza che avvengano “stranezze e stravaganze” che ricordano in qualche caso le “truppe cammellate” della goliardia politicizzata degli anni Sessanta, più che le primarie americane.

Di fatto, basta affidarsi alle cronache di questi ultimi anni, per capire che le primarie all’italiana sono la caricatura delle primarie americane. Di fatto, si è importato un modello in una situazione completamente differente, con una storia del tutto differente.

Non c’è certo da fare paragoni di carattere antropologico, ma la consuetudine democratica della Pennsylvania e del Michigan sono un po’ diversi da quelli di Porta Ticinese a Milano, di Trastevere a Roma e anche di Mergellina a Napoli.