Lo ha scritto ieri sul Corriere della Sera Marco Demarco, già direttore del Corriere del Mezzogiorno e attento osservatore della realtà politica napoletana. A Napoli stiamo vedendo i primi trailer del Partito democratico a venire, impantanato nel guado tra partito di massa ideologicamente orientato, che non è o non può essere più, e partito d’opinione, magari pragmatico a forte impronta personale (il partito di Renzi), che non riesce a essere ancora. Un pantano in cui a dir la verità il Pd a Napoli s’è cacciato da solo, recidendo i legami con l’opinione pubblica e suoi esponenti non professionisti della politica — legami tradizionali all’ombra del Vesuvio in una città con cinque università (tra i parlamentari campani non figura uno che sia uno professore universitario) —, e affidando pressoché tutta la sua rappresentanza istituzionale a quadri di partito di scarsa caratura politica e nessun seguito o riconoscimento nella città vera (il che spiega perché un Bassolino potesse sfidarli praticamente da solo quasi vincendo); quadri infarciti di figli e figlie, eredi dei pacchetti dei voti e delle tessere dei genitori.
Quel mix tra quadri politici e intellettuali o borghesia delle professioni che ancora i vituperati Bassolino e Iervolino con alterni esiti amministrativi avevano tuttavia sempre garantito, non c’è più. Paradossalmente è il populista de Magistris, in modo magari confusionario, sbagliandone una su due, a traghettare nella sua giunta e nel circuito della rappresentanza pezzi di società civile napoletana. Il che spiega anche, insieme al fatto che sotto di lui non è accaduto praticamente nulla sia nel bene (atti amministrativi di rilievo) ma neanche nel male (scandali e ruberie), perché sia il favorito alle prossime amministrative in una città rassegnata al fatto che dal Pd non può venire niente di buono finché non cambiano i suonatori, sempre che ci sia ancora l’orchestra.
Tanto più che il partito — la cui gestione è organizzata attorno a 2.800 tessere, a quindici euro l’una, per cui basterebbero 21mila euro per acquisirne il controllo del 51 per cento e determinare a cascata candidature e offerta della rappresentanza a chi vota Pd — in teoria facilmente scalabile, seguiamo sempre l’analisi di Demarco, in pratica non lo è affatto. Essendo retto da un patto di sindacato di notabili locali, che non lavorano neanche per costruire una leadership cui fare da corona, troppo rischioso, con il precedente di Bassolino alla cui corte sono pressoché tutti cresciuti, o a quella di De Mita. Ma semplicemente per non cambiare i rapporti di forza relativi nel patto di sindacato in cui si sono stretti da un decennio.
Patto che non prevede incursioni civiche o politiche dall’esterno all’attuale circolo di reggenza. Un meccanismo dove tutto è prevedibile: numero dei votanti ed esito nei seggi che decidono la competizione; sempre gli stessi, un pugno di seggi nelle periferie malate, con un voto “spintaneo” più che “spontaneo” come si è espresso, con felice creatività linguistica, il senatore Enzo Cuomo, presidente di uno dei seggi incriminati.
Un pugno di seggi che decide puntualmente, contro il trend del resto della città, l’esito della competizione. Che si sapeva che avrebbero votato in 30mila (il numero delle tessere per dieci) e avrebbe vinto la candidata dell’apparato, la Valente, e se si fosse arrivati a 35mila avrebbe prevalso Bassolino, più capace di aggregare un voto non dipendente dall’organizzazione e dalle reti sociali residue del partito, lo ha scritto un altro acuto e informato osservatore della realtà politica napoletana, Claudio Velardi.
Insomma questo è il quadro. E quello che si è dato domenica 6 marzo con Valente e Bassolino, lo si era visto nel 2011 con Cozzolino e Ranieri; i sondaggi davano, quale che fosse lo sfidante che le primarie avessero designato tra i due, il Pd al 17 per cento contro il 41 per cento di de Magistris. Le primarie avrebbero dovuto costruire la base per la risalita nei consensi e giocarsi la partita. L’esito depone per una più probabile discesa. Forse c’è materia all’ombra del Vesuvio per un commissario liquidatore dell’attuale corso del Pd, che ne salvi nelle urne di giugno almeno la possibilità di un dignitoso risultato a due cifre. Ballottaggio e vittoria appaiono, allo stato, appartenere al lessico della prossima volta.