Le primarie del Partito democratico sono sempre al centro dell’attenzione e alimentano polemiche dure, tra vecchi e nuovi dirigenti del Pd. Si sommano sia un piano di scontro politico sulla linea del partito, come ha dimostrato la lunga dichiarazione fatta da Massimo D’Alema proprio ieri, prima con un’intervista al Corriere della Sera, poi davanti a Montecitorio, sia un piano di scontro istituzionale, che si alimenta di ricorsi, di dichiarazioni sul modo di regolare queste consultazioni che caratterizzano oggi la vita di un partito come il Pd. Il rischio è che tra questi due piani di discussione si faccia un grande pasticcio e si finisca con l’aggravare una situazione che non è affatto semplice. Giulio Vigevani è un noto costituzionalista, per l’esattezza professore di diritto costituzionale nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca ed è titolare dei corsi di diritto costituzionale e di diritto dell’informazione e della comunicazione. In sintesi, Giulio Vigevani, immerso nello studio e nel mondo del diritto costituzionale e in quello della nuova comunicazione di massa diventa di fatto uno dei più attenti osservatori della realtà politica, in un momento di grandi mutamenti.
Professor Vigevani, si parla, a voce forse un po’ troppo alta, di queste primarie del Pd, dopo quello che è avvenuto a Napoli e Roma. Ci sono ricorsi e contro-ricorsi in atto, in una situazione politica complicata. E, al contempo, c’è chi chiede una normativa di queste primarie che noi abbiamo imparato dalla consuetudine e dalla tradizione della democrazia americana. Che cosa ne pensa?
Sono piuttosto restio a una rigida normativa sulle primarie. E’ una questione delicata e complicata. In genere, si cita l’articolo 49 della Costituzione, dove si sancisce il ruolo, l’importanza dei partiti nella vita democratica, per sostenere che questo articolo non sia stato mai attuato, attraverso norme specifiche e precise. Ma credo che non si colga il problema. Forse si è legittimamente voluto lasciare i partiti sregolati. Dall’articolo 49 emerge il partito come libera associazione che definisce autonomamente le sue regole interne e le modalità di selezione dei candidati. E questa mi pare una lettura corretta. Perché si dovrebbe stabilire che tutti debbano scegliere gli stessi metodi di autoregolamentazione interna? Perché, ad esempio, si dovrebbe stabilire che tutti partiti, nella loro procedura di selezione della classe dirigente, debbano scegliere le primarie? Io sono abbastanza diffidente verso una normativa particolareggiata sui partiti, dettagliata in tutti i suoi aspetti.
Come giudica la scelta delle primarie fatta nell’ultima decina di anni dal Pd?
Ritengo che le primarie siano uno dei fatti più positivi e rilevanti nella politica di questi ultimi dieci anni. Ricordo i numeri di alcune primarie, quando si sono coinvolte fino a tre milioni di persone, che andarono a votare per scegliere il candidato alla presidenza del Consiglio del centrosinistra. Questa partecipazione in una società dove la politica è diventata sempre più impopolare e dove spesso si trova un distacco marcato tra partiti e opinione pubblica, è stato un fatto senza dubbio positivo.
In sostanza, che cosa dovrebbero fare oggi i partiti o il partito, per essere esatti, che sceglie lo strumento delle primarie come metodo di selezione e partecipazione, cercando di stabilire criteri di correttezza e scongiurando l’odore dei brogli?
Il partito che decide di utilizzare le primarie deve garantire con poche e chiare regole la correttezza del risultato finale. Noi guardiamo spesso alle primarie americane. Che cosa ci troviamo in particolare? Le regole sono differenti all’interno dei due partiti e anche dei singoli Stati. Se si osserva bene quella realtà, non ci sono norme tassative e perentorie, ma piuttosto una lunga tradizione di democrazia e di partecipazione nella vita politica americana. E una sostanziale correttezza acquisita per consuetudine. Le primarie, negli Stati Uniti, sono innanzitutto un dato di fatto.
Forse i partiti italiani non si sono ancora abituati al grande mutamento sociale che è avvenuto in questi anni. Probabilmente non si sono abituati ai mutamenti dell’opinione pubblica, a partiti che non sono più in grado di controllare parti della società e dell’elettorato, ma devono fare i conti con continui cambiamenti e con opinioni che mutano.
Senza dubbio quella contemporanea è, come si usa dire, una “società liquida”, nella quale i partiti, come gli studiosi e i giornalisti, difficilmente riescono a comprendere gli umori e le tendenze dell’elettorato. Chi aveva immaginato, solo tre anni fa una “scalata” come quella fatta dal Movimento 5 Stelle? Quel 25 per cento di voti colse tutti di sorpresa e ben pochi prevedevano un simile successo elettorale.
Ed è probabile che questi cambiamenti saranno sempre più significativi, quindi, a suo parere, una rigida normativa dei partiti sarà sempre più complicata.
E’ proprio così. Stabilire norme rigide e uniformi sarebbe inutile o addirittura controproducente, anche perché ogni normativa rischia di arrivare tardi, di basarsi su un modello di partito già superato dalla realtà. Quindi il mio consiglio: poche norme per garantire una sostanziale correttezza.
(Gianluigi Da Rold)