In due frasi la fotografia di un partito spaccato come non mai: “non ucciderete il governo”, dicono Serracchiani e Guerini; “noi non restiamo nel Pd, noi siamo il Pd”, ribatte Speranza. Dopo due anni di guerriglia, il momento dello scontro finale sembra farsi sempre più vicino perché contro Renzi sono scesi in campo i veri big del partito, che sinora si erano nascosti dietro i vari Fassina, Cuperlo, o Speranza.
L’ex presidente dei deputati democratici sarà probabilmente lo sfidante del premier segretario quando il congresso del Pd sarà celebrato. Ma l’attacco a Renzi stavolta lo portano D’Alema e Bersani, ed è tutta un’altra cosa. Le parole più dure sono quelle pronunciate dall’ex premier. D’Alema dà praticamente per finita l’esperienza democratica, che — a suo dire — si è irrimediabilmente trasformata ormai nel partito della nazione. Ma quelle politicamente più minacciose sono copyright di Bersani, quando ricorda a Renzi che governa “comodamente” con i voti e i seggi che lui ha saputo guadagnare nel 2013.
Dopo la convention bersaniana di Perugia cambia tutto dentro il Pd: adesso c’è un’opposizione chiara e dichiarata al segretario. I suoi leader sono Bersani e D’Alema, il candidato alternativo Speranza. Dopo la diaspora dei Pastorino, Civati, D’Attorre, Martelli ed altri, adesso c’è un coagulo, che chiede a gran voce l’anticipo del congresso, previsto per la seconda metà del 2017.
Eppure Renzi non dà per nulla l’idea di essere preoccupato. Soprattutto non sembra avere alcuna intenzione di concedere l’anticipo della conta interna. La minoranza pensa se non di spodestarlo, quantomeno di condizionarlo pesantemente. Ma il conto del premier è che più passa il tempo, più la forza dei suoi oppositori è destinata ad affievolirsi. quindi non c’è alcuna ragione per anticipare il congresso. I sondaggi sono dalla sua parte, la sua leadership non ha alternative, solo con lui il Pd oggi può pensare di essere vincente.
Come argomento per chiedere l’anticipo del congresso la minoranza porta la convinzione che quasi certamente si andrà al voto nella primavera del prossimo anno, sull’onda del prevedibile successo del referendum confermativo sulla riforma della seconda parte della Costituzione targata Maria Elena Boschi. Ma il niet del quartiere generale renziano è netto come quello del Cremlino dei bei tempi.
“Non inseguiremo le polemiche di chi vorrebbe riportarci al tempo delle divisioni interne che hanno colpito a morte i governi passati del centrosinistra”, è il ritornello dei due vicesegretari, Guerini e Serrachiani. L’onore della prossima mossa è interamente sulle spalle dell’opposizione interna. Sinora non è che abbia dimostrato una gran quantità di coraggio: ha evitato conte negli organismi interni, tanto in direzione quanto nell’assemblea nazionale, temendo di fare figuracce. E l’ipotesi di lasciare il partito viene talvolta adombrata, ma di fatto non è mai stata presa seriamente in considerazione.
Scatta qui un meccanismo psicologico tarpante: per D’Alema e Bersani l’usurpatore è Renzi, e dovrebbe essere lui a lasciare la “ditta”. Ovviamente il diretto interessato non ci pensa nemmeno. Al timone contemporaneamente del Pd e del governo ci si trova benissimo. Se qualcuno vuole andarsene, si accomodi, non sarà certo lui a fare il favore di far passare la sua minoranza interna per vittima. Ci saranno continui richiami alla disciplina di partito, ma certo mai nessuna espulsione di massa. Il renzismo è fatto così: rende l’aria irrespirabile per gli oppositori, ma non li caccia apertamente.
D’Alema, Bersani e il loro giovane campione Speranza non potranno andare avanti all’infinito senza prendere una decisione che interrompa un estenuante braccio di ferro che dura da troppo tempo, e li ha visti sin qui schiacciati e perdenti. Non hanno avuto il coraggio di rompere né sul Jobs Act, né sulla legge elettorale, né sulla riforma della Costituzione. Tutti temi “di sinistra”, su cui sono state accettate soluzioni che di sinistra non sono. Ora non intendono avallare alle amministrative liste civiche di area per non prestare il fianco all’accusa di avere sabotato il partito. Quindi no a Fassina, ma anche a Bassolino.
Adesso l’ultima chiamata sembra offrirsi sul referendum confermativo della riforma costituzionale, in autunno. Ma la domanda se la minoranza dem — che non appare neanche tanto coesa al suo interno — saprà trovare il coraggio di andare sino in fondo è più che legittima. Sinora ha fallito tutti gli appuntamenti, per il timore di venire spazzata via dal ciclone Renzi. Se perderà anche questa, adeguandosi balbettando al sì, si condannerà definitivamente all’irrilevanza. Si condannerà a cantare “meno male che Matteo c’è” (copyright Speranza). A quel punto il leader democratico avrà campo libero, non solo nel congresso, ma anche nella formazione delle liste. E la trasformazione del Pd in partito della nazione, più attento a Verdini che alla Cgil, sarà davvero cosa fatta.