Quando Beppe Sala — candidandosi a sindaco di Milano — disse “Destra, Sinistra, Centro? Chi se ne frega” aveva il consenso della stragrande maggioranza dei milanesi: l’Expo si era conclusa con il “tutto esaurito”, Milano era stata una location internazionale da Benjamin Netanyahu a Michelle Obama, dalla Merkel a Rania di Giordania; Cantone, Autority anticorruzione, certificava: “Milano è tornata capitale morale”.  In campo avversario: il centro-destra si era sparpagliato con Berlusconi rassegnato alla ricerca di una candidatura “di bandiera” e anche i grillini si erano messi in sonno candidando una consigliera di zona.  Ora la “Beppe Grillo-Casaleggio Associati” ha costretto la vincitrice delle loro primarie a uscire di scena in quanto non è una bella donna, con tanto di Premio Nobel, Dario Fo, a irriderla. Il centro-destra improvvisamente, mentre in tutta Italia è diviso, a Milano si ricompatta e addirittura si allarga coinvolgendo Ncd. Che cosa è successo proprio nella città in cui Matteo Renzi gioca davvero il voto amministrativo come test politico? 



Infatti a Napoli c’è la Valente, scelta da Orfini per contrastare Bassolino; i grillini — con il loro giustizialismo ammaccato dal caso Quarto — candidano non un partenopeo, ma il brianzolo Matteo Brambilla e de Magistris sembra avviato alla riconferma in polemica con il capo del governo. A Roma i 5 Stelle hanno finalmente una bella donna, la Raggi, mentre nel centro-destra si consuma la guerra civile e il Pd — anche lì in mano a Orfini (ex deus ex machina di Marino) — candida il pannellian-renziano Giacchetti, che però teme di non arrivare al ballottaggio. A Torino il berlinguerian-renziano Fassino traballa di fronte alla possibile confluenza nel ballottaggio tra grillini e “vecchia-nuova sinistra” del leader dei metalmeccanici Airaudo. A Bologna c’è il sindaco uscente, Virginio Merola, ma è un bersaniano con alle spalle il Pd che contesta l’astensione decisa da Renzi sul referendum anti-trivelle.



Conclusione: è Milano il vero test politico scelto dal premier, ma la vittoria non è più ultra-scontata. Perché? Certamente primarie e post primarie non hanno incrementato il consenso per Sala. Quando candidatura e vittoria erano scontate il sindaco uscente, Giuliano Pisapia, (che sei mesi prima aveva annunciato la sua non ricandidatura) ha posto il problema della “continuità” e ha candidato contro Sala l’attuale vicesindaco. Perché? Perché Sala non sembra abbastanza di sinistra. 

Quindi abbiamo avuto due mesi di primarie a torte in faccia contro il futuro candidato sindaco, con la Balzani che sollevava dubbi sull’Expo, sia sui conti sia sugli appalti. Poi è cominciato il post-primarie e cioè la trattativa sugli assetti di giunta. Perché? Perché in realtà — si è spiegato per settimane nei mass media — Sala non aveva vinto le primarie. 



Anzi — argomentavano sindaco e vicesindaco — in realtà le aveva perse perché la maggioranza dei votanti avevano votato per Balzani o Majorino e quindi bisognava “garantirli”. E cioè le primarie, simbolo del sistema maggioritario, erano diventate il trionfo del proporzionale puro. Il risultato serviva solo a dar vita a una trattativa tra i vari candidati sulla base dei voti raccolti. I leader renziani del Pd hanno interrotto questa escalation, ma ormai lo show era andato in onda. E cioè alla vigilia di una campagna elettorale che a Milano si gioca tutta, tra centro-sinistra e centro-destra, sulla conquista dell’elettorato di centro il problema del Pd è diventato quello di mettere i paletti contro lo sconfinamento al centro per rassicurare l’elettorato di estrema sinistra. No Ncd, no Verdini e persino l’apparizione di Massimo Ferlini al comizio di Sala è diventato un “casus belli”. Insomma il problema del Pd a Milano è di avere ormai troppi voti e quindi di impostare una campagna elettorale veramente di sinistra, con il setaccio, onde evitare consensi inquinanti. Che cosa farà Sala? Ancora “Destra, sinistra, centro? Chi se ne frega” o si metterà la maglietta di Che Guevara e il 25 aprile andrà a cantare “Bella Ciao”? 

Più in generale sulle prossime elezioni amministrative — come su ogni voto che si svolge in Europa — incombe il fatto che i movimenti antieuropeisti di destra e di sinistra, anche se non sembrano un’alternativa di governo, da anni sono in crescita. I premier dell’Unione Europea li snobbano come acqua sulla roccia e proseguono nella loro rotta senza discuterne o tenerne conto. Quando mai in Italia Renzi o Berlusconi hanno fatto un convegno o un confronto serio per discuterne? Purtroppo non solo loro in Europa. Con due peggioramenti che alimentano l’antieuropeismo: da un lato c’è il blocco del processo di integrazione, nel senso che le principali decisioni sono tolte dall’esecutivo (la Commissione) e tornano di nuovo a essere rimesse ai vertici dei capi di stato e di governo (il Consiglio) e dall’altro si spegne ogni dialettica alla luce del sole e non si avvertono più differenze tra socialisti e democristiani. 

In sostanza: da un lato un’Unione Europea sempre più impaludata in mediazioni e compromessi tra diversi e opposti nazionalismi, e dall’altro un consociativismo senza pluralismo politico. E anche le elezioni locali diventano un’occasione di sfogatoio per il crescente dissenso di fronte a governi che si guardano allo specchio.