La scelta di Philippe Donnet come Ceo di Generali, la cassaforte della finanza italiana, e l’offerta di Vivendi su Mediaset, il più grande gruppo editoriale della Penisola, sono avvenute e stanno avvenendo sotto la guida di un portabandiera dell’imprenditoria francese, Vincent Bolloré. Questi pare destinato a contare sempre di più sui destini italiani e a imprimere una nuova direzione nell’integrazione industriale europea.



L’integrazione Vivendi-Mediaset costruirebbe, infatti, un colosso in grado di competere con i concorrenti tedeschi o inglesi che già si sono allargati su base continentale e non, e una possibile integrazione Generali-Axa (l’assicurazione francese di cui Bolloré è anche azionista) potrebbe creare un gruppo finanziario più forte della Allianz, l’assicurazione tedesca.



Finirebbe così di fatto la fase in cui i singoli stati difendono interessi industriali nazionali e si aprirebbe un nuovo periodo di vera integrazione di interessi pan-europei. Ciò sarebbe necessario alla sopravvivenza dell’euro nel momento in cui l’Unione è minacciata dalla minaccia multipla del referendum per l’uscita del Regno Unito dalla Ue, dalle crisi dei profughi da Siria e Libia e dalla spada di Damocle del debito delle banche italiane.

Questo concretamente oggi dà più potere a Mario Draghi, capo della Banca Centrale Europea (Bce) e al cancelliere tedesco Angela Merkel, chiamati più o meno indirettamente a benedire questi moti tellurici nel continente.



L’integrazione “francese” di Generali e Mediaset è anche la fine di una lunga fase storica guidata con pervicacia e intelligenza da banchieri come Enrico Cuccia, per decenni capo indiscusso di Mediobanca, tessitore della complicata ragnatela industrial-finanziaria italiana, l’uomo che dalla fine della seconda guerra mondiale difese l’indipendenza dell’industria italiana da scalate straniere.

Oggi invece in tempi molto diversi Mediobanca appare su posizioni diverse. Essa sembra interessata a trovarsi un nuovo ruolo facilitando questa integrazione continentale. Certo, diversamente da quello che era la Mediobanca di Cuccia in Italia, la Mediobanca di oggi non ha il pugno della situazione sull’Europa.

Questi disegni non sono certo andati ancora a buon fine ma segnano una traiettoria ormai precisa su cui l’Europa potrebbe muoversi. Su ciò l’Italia complessivamente si sta già muovendo. Il trasferimento in Olanda del centro del gruppo Fiat-Chrysler pare una scelta non semplicemente dovuta a motivi fiscali, ma indica come il produttore si senta europeo e anche americano più ancora che italiano.

In tale prospettiva le polemiche quasi quotidiane italiane sull’Europa paiono senza senso, solo urla allo stadio. Ma proprio perché sono in atto tentativi così importanti, le polemiche italiane sull’Europa rischiano di essere molto pericolose. Creano una frattura in più in un momento estremamente delicato del continente. I politici italiani invece paiono compresi nell’idea di biasimare l’Europa per tutto il male di casa loro, oppure assumono posizioni da Giano bifronte: sparlano dell’Europa in pubblico ma la cercano in privato.

Anche in Cina però, dove il governo centrale ha certo più poteri di quello di Roma, tale strategia di comunicazione appare debole perché è a rischio di essere smentita a ogni piè sospinto e potrebbe far precipitare il paese in una crisi di rappresentatività. La massiccia astensione dal voto alla fine rappresenta proprio questo, la sfiducia in tutto quello che dice la politica italiana. 

Il punto della questione italiana con l’Europa è il seguente. 

L’Europa è l’unica dimensione in cui l’Italia può esistere e, auspicabilmente, crescere e prosperare. È come l’aria che le permette di respirare, e senza la quale soffoca. Ma forse alcune polemiche italiane dimenticano questa premessa fondamentale e si comportano come se l’Italia potesse esistere e resistere senza l’Unione europea.

Così, se l’Italia uscisse dall’Europa darebbe inizio a una crisi economica globale di cui lei stessa sarebbe la prima vittima; se uscisse dall’ambito europeo e atlantico sarebbe alla mercé di ondate di immigrati e infiltrazioni terroristiche molto più di quanto non avvenga oggi; senza l’Europa, l’Italia sarebbe presto un paesino insignificante in un contesto mondiale dove super-stati delle dimensioni della Cina o dell’India cominciano a dominare l’orizzonte.

Quindi per sopravvivere nel breve periodo e avere speranze di crescere nel medio e lungo termine l’Italia non può che essere in Europa. Metterlo in dubbio può pagare solo nell’immediato, ma è appunto solo uno slogan da stadio, come urlare “arbitro cornuto” dice la frustrazione del tifoso ma non prova alcunché sulla virtù della moglie del direttore di gara.

Ciò detto ci sono problemi che l’Italia ha con l’Europa. Sono importanti e devono trovare una soluzione e mediazione profonda, che non può consistere in una trattativa di bassa lega sui punti percentuali da sforare nel deficit di bilancio.

Il nocciolo è la storia di ciò che hanno fatto Germania e Italia negli anni 90. Allora e per i 20 anni successivi, la Germania si è rigenerata e ritrovata in uno sforzo costruttivo immane che ha portato allo stesso tempo alla ricostruzione e integrazione dell’est ex comunista, e all’espansione della sua rete industriale in Asia, in particolare in Cina, cuore dello sviluppo economico mondiale dei decenni precedenti.

Negli stessi anni l’Italia è affondata in una guerra fratricida contro la corruzione prima e contro Berlusconi poi, come fosse l’origine e la fine di tutti i mali italiani. Mani Pulite ha prima giustamente sfasciato un sistema di potere marcio ma poi ha dato inizio a una fase di contrapposizioni asperrime e spesso sterili che hanno bloccato il paese su se stesso.

Forse, con il senno di poi, occorre dire che in questa fase non ci sono innocenti, anche se probabilmente le colpe non sono tutte uguali. Il risultato comunque è che per 20 anni, mentre il mondo si trasformava con la globalizzazione, l’Italia guardava solo a se stessa e trascurava il debito pubblico. Esso dopo un primissimo impulso di privatizzazioni alla fine degli anni 90 restava in pratica stabilmente intorno al 120% del Pil, il doppio del margine fissato dal trattato di Maastricht per arrivare alla moneta unica, l’euro.

L’Italia però non era arrivata a questo gigantesco debito pubblico per semplice corruzione e inefficienza amministrativa, ma per importanti ragioni storiche: l’avere salvato l’Europa dalla minaccia di una guerra con l’Urss.

Nel 1978, quando Moro fu rapito e ucciso dalle Brigate rosse, il rapporto debito pubblico Pil in Italia era sotto il 60%, entro i criteri di Maastricht quindi. Dopo Moro ci fu l’attentato a papa Wojtyla, il rapimento del generale americano Dozier e centinaia di altri fatti violenti che hanno tenuto il paese sull’orlo della guerra civile e hanno lasciato l’occidente sull’orlo di un effetto domino di eversione totale, parte della guerra fredda allora in corso. 

Contemporaneamente, nella distrazione politica generale, la mafia aveva rialzato la testa e aveva occupato militarmente interi pezzi del paese.

Nei 10-15 anni successivi il paese ha sconfitto la multipla sfida del terrorismo rosso, nero e mafioso mantenendo la democrazia e impedendo il dilagare di queste sue minacce in altre parti dell’Europa.

Cioè l’Italia e l’occidente non solo hanno respinto la minaccia sovietica, ma hanno tutelato i valori occidentali di libertà e democrazia.

Una parte importante di questa vittoria è dovuta alla scelta di far crescere la classe media, e quindi prosciugare le sacche di miseria, disoccupazione e grandi disparità sociali che davano benzina all’eversione di ogni tipo. Questa operazione è stata finanziata facendo crescere il disavanzo del Pil.

Un’operazione analoga era avvenuta negli anni 60 e poi venne rimessa in ordine negli anni 70 pilotando un’inflazione che riportò i conti in ordine. Forse negli anni 90 la vecchia Dc pensava a misure analoghe di riordino dei conti, ma prima Mani Pulite spazzò via la vecchia classe dirigente e poi gli attriti pro o contro Berlusconi eliminarono ogni attenzione ai problemi di lungo termine di risanamento del Pil.

L’espansione del deficit che aiutò in maniera determinante la lotta all’eversione non fu perfetta. Montagne di denaro vennero sprecate, molti fondi finirono in corruttela, tanti rappresentanti della classe dirigente non riuscirono a districarsi dalle faide di bande. Ma dietro tutto questo c’era un pezzo fondamentale della guerra fredda, e le guerre, si sa, non sono cristalline.

Il quasi ventennio cresciuto intorno a Berlusconi è stato il dopoguerra italiano, sviluppatosi poi mentre il Paese era ancora ferito e dolorante per il conflitto combattuto per salvare se stesso e l’occidente, e il resto dell’Europa era solido e salvo anche grazie al sacrificio italiano. Il terrorismo che pure ha colpito altri paesi europei infatti non è stato mai così violento, lungo e devastante come in Italia.

Ciò non vuol dire che l’Italia non debba rimettere in ordine i suoi conti, ma nel contesto europeo forse si può — si deve — avere un approccio anche storico sulle ragioni complesse delle cose.

Queste ragioni storiche italiane possono avere un peso nella costruzione dell’Europa futura, che dovrà anche passare per un coordinamento maggiore delle politiche fiscali ancora molto diverse, di nuovo per ragioni storiche, in ciascun paese europeo.

Per esempio l’Italia, per sostenere la classe media, diga contro il terrorismo di allora, scelse di non tassare di fatto le case e incoraggiare in mille modi i risparmi privati. La Germania, per motivi diversi, tassa diversamente le case e sostiene differenti politiche per il risparmio privato.

In questo c’è anche un margine di efficienza o inefficienza del sistema amministrativo, tedesco o italiano, ma ci sono ragioni politiche che vanno prese in considerazione pensando al futuro: le nuove tasse europee cosa faranno sulle proprietà? E come si potranno creare diverse abitudini al risparmio, che sono poi diversi approcci alla vita e alla responsabilità sociale?

Da una parte, in Italia la famiglia è un enorme polmone di credito e risparmio, in Germania per altro lo è molto meno. Gli italiani devono diventare più tedeschi? O i tedeschi devono essere più mammoni? 

Nell’ambito europeo questi sono temi profondi da discutere e su cui scegliere, oltre certo al risanamento necessario dell’apparato italiano. Bisogna fare gli europei ora che si è fatta l’Europa, è qui il terreno di mediazione politica forte su cui deve intervenire il governo italiano. Il resto è semplicemente nulla, aria ai polmoni.

Sulla costruzione dell’Europa, l’Italia può e deve dare un contributo e ha bisogno urgente e impellente di più Europa e più America, non meno. Altrimenti il paese diventa solo terra di occupazione, passiva, cosa che a lungo termine non fa bene neanche al resto del continente.