E’ andato negli Stati Uniti per trovare riparo dalle accuse montanti sui troppi errori fatti in Italia e in Europa. Innanzitutto sugli immigrati, a vantaggio del tormentone salviniano. L’accordo Ue-Turchia, che ha da poco improvvidamente firmato qualche giorno prima a Bruxelles, non solo non funziona per ammissione dello stesso presidente del consiglio Ue, il polacco Tusk, ma addirittura ha una vittima sacrificale designata: la “sua” Italia, l’Italia di Matteo Renzi appunto. 



Proprio così. Perché non ci voleva molto a capire che la chiusura della rotta balcanica avrebbe coinciso con il rilancio di quella libico-mediterranea e — in più — con il rischio dell’apertura di una eventuale rotta adriatica che porterebbe sulle coste pugliesi decine di migliaia di profughi. E tutto questo senza che il testo dell’accordo citi una sola volta questi scenari che complicano la situazione italiana oltre l’accettabile. 



Inseguito dal parlamento che pretende che il governo renda conto di questa clamorosa svista, come dei passaggi sospetti di terroristi di mezzo mondo sul nostro territorio, come del caso Regeni, come del caos pensioni, e dei centomila ricorsi sulla Buona Scuola e dello scontro no triv con la minoranza Pd, Matteo Renzi è atterrato in America e ha tirato un sospiro di sollievo. 

Ma solo per pochi istanti. Il tempo di scendere dall’aereo e di ascoltare dalla viva voce dell’ambasciatore italiano a Washington, Armando Varricchio, parole preoccupate. Gli americani sono irritati per la titubanza del premier sui nostri impegni in Libia. Altro che solo aerei e commando. Al Department of State sono stati chiari. Gli italiani hanno promesso migliaia di uomini, e chiesto la leadership delle operazioni (qualcuno in Italia ha forse dimenticato le nostre dichiarazioni sulla “regia dell’intervento”? Gli americani no). E Obama non vuole saperne di ricevere Renzi fino a quando non saranno date assicurazioni sul caso.



Renzi rischia di tornare dagli States ancora più debole di quando è partito. La pronta difesa di ufficio fatta ieri da Paolo Mieli sul Corriere della Sera delle indecisioni del presidente del Consiglio potrebbe rivelarsi inefficace. Mieli espone non senza ragioni i rischi di un intervento precoce in Libia. E Mieli in Italia è un “mammasantissima” del giornalismo. Ma a Washington non lo legge nessuno. A Washington vogliono vedere risultati. E se gli dici che aboliremo il Senato e avremo una nuova legge elettorale fanno spallucce. Per loro gli unici fatti che contano hanno i “boots on the ground”. Gli stivali sul terreno.