“A fare l’invasione della Libia con cinquemila uomini l’Italia, con me presidente, non ci va. Non è un videogioco”. La frenata di Matteo Renzi è fragorosa, ma è meno frenata di quanto non possa apparire a prima vista. Certo, la tela pazientemente intessuta dalla nostra diplomazia per recuperare il ruolo di primo piano in Libia è stata lacerata dalla morte di due ostaggi. Ma lo strappo non è irreparabile.



Due liberati e due uccisi è un bilancio negativo. E forse la cortina fumogena che continua ad aleggiare su quanto accaduto dalle parti di Sabrata serve a evitare che nuovi scomodi particolari vengano a galla, come riscatti pagati (forse a metà), e blitz andati male, magari con la presenza di qualche “esperto” italiano già in loco. Piove sul bagnato di un’opinione pubblica all’80 per cento schierata contro l’invio di un nostro massiccio contingente sulla sponda sud del Mediterraneo. Sondaggi, umori univoci di cui il presidente del Consiglio non può non tenere conto. Questo drammatico incidente proprio non ci voleva.



I fatti hanno costretto il premier ad alzare la voce con gli alleati, americani prima di tutto, ma anche francesi e inglesi. Il giorno dopo l’annuncio della morte dei due tecnici italiani l’ambasciatore di Obama a Roma in modo davvero inusuale aveva dichiarato che gli Usa si attendevano cinquemila soldati dal nostro paese. Un contingente che — fanno sapere gli esperti — l’Italia semplicemente non si può permettere perché costerebbe tantissimo, non meno di 700 milioni l’anno, senza contare appunto l’impopolarità della missione e il rischio di rilevanti perdite umane.



Palazzo Chigi e Farnesina, con l’autorevole sponda del Quirinale, da mesi lavoravano per vendere riconosciuto al nostro paese il ruolo di leadership della coalizione internazionale destinata a stabilizzare la Libia, cui ci legano enormi interessi energetici. Anche Mattarella aveva fatto la sua parte nel colloquio di inizio febbraio con Obama. In quell’occasione il presidente statunitense aveva dovuto convenire che sarebbe stato necessario un preventivo accordo fra i libici su un governo di unità nazionale che chiedesse un supporto internazionale.

In un mese ciò che è cambiato è proprio questo: il governo di unità nazionale in Libia si allontana ogni giorno di più. Lo ha reso evidente la sparata del ministro degli Esteri del governo di Tripoli, che ha detto no a qualunque intervento militare dall’esterno. Roma non può che prenderne atto, e richiamare gli alleati a fare altrettanto. Mettere oggi gli “stivali sul campo” in Libia è oltremodo rischioso, si potrebbe finire in uno scenario simile alla Somalia anni Novanta, Tripoli come Mogadiscio.  

Soprattutto con Parigi Renzi è stato brusco, ricordando che l’attuale caos è figlio di un intervento, quello del 2011, compiuto senza alcuna riflessione sulle sue conseguenze. Renzi, insomma, sta tentando di esercitare la leadership italiana spingendo la comunità internazionale a rinviare l’intervento militare a quando ve ne saranno le condizioni che bisogna attivamente contribuire a costruire. Non è detto che francesi, inglesi e americani siano d’accordo, ma il no italiano è destinato a pesare.

Nel frattempo il premier chiede ai partiti italiani “equilibrio, saggezza e buonsenso”, evitando le strumentalizzazioni. Ma il silenzio e le reticenze intorno alla vicenda dei quattro ostaggi non aiutano. L’occasione per attaccare quelli che per le opposizioni sono evidenti errori dell’esecutivo è troppo ghiotta per non essere colta. Se non saprà gestire con saggezza la vicenda, “Tripoli, bel suol d’amore” potrebbe costituire per il governo una partita davvero insidiosa.