L’elenco, più che dall’indagine del Gruppo internazionale di giornalisti investigativi (Icij), ha tutta l’aria di un grande dossier uscito dagli scaffali della Cia, cioè dell’agenzia principe dello spionaggio americano. Ci si interroga sul significato di questa pubblicità data ai cosiddetti “Panama Papers”, all’immagine del sistema finanziario ed economico globalizzato che emerge da un paradiso fiscale di grandi dimensioni, in una situazione dove l’economia, soprattutto su questa sponda dell’Atlantico e nei Paesi emergenti, sta zoppicando, cerca faticosamente di risollevarsi da una crisi epocale che è cominciata nel 2007 e non è ancora finita.
E’ probabile che noi tutti siamo un poco afflitti da un’insana forma di dietrologia. Ma è anche lecito pensare che non tutto avviene per caso, in una situazione mondiale dove le guerre convenzionali sono sostituite da un lato dalle battaglie cruente asimmetriche, quelle condotte ormai da centrali e “stati” terroristici e dall’altro da “regolamenti di conto” che si giocano sullo scontro dell’informazione per il possesso di dati sensibili.
E’ molto difficile addentrarsi in analisi di questo tipo, raggiungere conclusioni, non confondersi imboccando piste che alla fine possono rivelarsi solo delle grandi operazioni di depistaggio.
Conviene quindi fermarsi a quello che si riesce a comprendere a prima vista, all’immagine che esce da questa infinita sequenza di nomi, che rappresentano la vera “casta” della nuova società globalizzata.
Facciamo anche una premessa doverosa. Nel mazzo dei tanti nomi di personaggi e di tante sigle di tutto il mondo che si sono affidati allo Studio Mossack Fonseca, un’autentica fabbrica di società offshore, ci può essere benissimo anche una parte di regolari cittadini del mondo che denunciano di avere messo dei regolari capitali all’estero.
Bisognerà alla fine vedere che cosa ci sarà esattamente in quegli undici milioni e mezzo di documenti, distinguendo i soldi che vengono da riciclaggi di malavita, quelli che servono per finanziare il terrorismo, quelli che sono frutto di un’elusione o di un’evasione fiscale e anche quelli regolari. Lì in mezzo c’è di tutto. E c’è persino la consapevolezza, da parte di molti economisti, che una tale montagna di quattrini, la maggior parte sottratta al fisco, rientra poi sempre ugualmente, in un modo o nell’altro, nel giro dell’economia globalizzata e paradossalmente contribuisce a salvare l’asfissia economica di questi nove anni di crisi.
Il primo flash che colpisce è comunque la presenza (limitata, quasi mirata) di alcuni politici. Lasciamo perdere lo scombiccherato primo ministro islandese, un “vaso di coccio” messo in mostra per necessità, che è già stato velocemente “frantumato”. E si può anche aggiungere qualche leader cinese che dal comunismo e dal maoismo (anche da un punto di vista di parentela) ha scoperto le sirene del capitalismo più rapinoso. Può tornare utile sapere queste cose in futuro. C’è anche il vecchio Le Pen, ormai un reperto politico sostituito dalla figlia e dalla nipote sulla scena politica francese.
Ma nel mezzo della lista dei Panama Papers spiccano soprattutto due nomi “strategici”: quello di Vladimir Putin, il nuovo “zar” russo che si contrappone agli Usa di Barack Obama nella definizione di un nuovo assetto geo-strategico mondiale; quello di David Cameron, premier inglese, che è alla vigilia di un passaggio cruciale della politica britannica ed europea. Si ribadisce da un lato il “no” a Putin, ma soprattutto si è riusciti a mettere in crisi Cameron, che in qualche modo vuole opporsi all’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, alla cosiddetta Brexit.
Ora la partita per il premier inglese si è complicata. A Londra, davanti a Downing street, si manifesta in migliaia per le dimissioni ed è salito al 30 per cento l’area degli incerti sul voto, mentre solo una settimana fa la Brexit era data per perdente dai sondaggi. E’ chiaro che l’Europa, che non piace agli Usa, sta “ballando” anche per i contraccolpi di questo “infortunio” di Cameron, direttamente collegato ai Panama Papers.
Il secondo flash che crea un impatto è il sistema finanziario globale, con una ricchezza concentrata in poche mani, una diseguaglianza ormai insopportabile e il peso fiscale degli Stati che viene principalmente sopportato dalle masse dei dipendenti pubblici e privati, con le ritenute alla fonte. Qui entrano in gioco valutazioni complessive che riguardano la ridefinizione del ruolo delle banche, dei manager e degli stock-optionisti che sono stati gli artefici della grande crisi del 2007. Non è improbabile che si stia cercando un nuovo assetto, che sia in corso una rivoluzione, per ora silenziosa, nel mondo finanziario tra chi vuole imporre nuove regole e chi invece intende proseguire su questa totale assenza di regolamentazioni. E’ una partita aperta.
Certo stupisce che, per l’Italia ad esempio, una banca d’affari come Mediobanca venne attaccata al suo interno dalla filosofia di “far valore” e di affidarsi alle stock-options e a tutti i prodotti della finanza cosiddetta “sintetica” soffocandone invece il ruolo di banca di sistema, che reggeva appunto un sistema facendo le nozze con i fichi secchi.
Alla fine c’è un altro flash che colpisce ancora di più. In questi anni, proprio nel 2007, quando esplode la crisi finanziaria negli Stati Uniti, che viene poi esportata in tutto il mondo, l’informazione si concentra sulla “casta” dei politici in Italia, con iniziative addirittura editoriali, ma sostanzialmente ridimensionando la politica in tutto il mondo. Se alla Banca Commerciale di Raffaele Mattioli e alla Mediobanca di Enrico Cuccia si cresceva rileggendo gli scritti economici di Cesare Beccaria, ma anche “Elogio dell’uomo politico” dello scozzese Frederick S. Oliver, per formare banchieri di sistema, oggi l’uomo politico è paragonato a un parassita a una sorta di intralcio nel meccanismo del mercato dettato dal “privatismo” sorto all’Università di Blacksburg sotto la bandiera di Milton Friedman e di von Hayek.
Per anni abbiamo assistito a una sorta di mitizzazione della società civile in contrapposizione alla società politica. Dimenticando in fondo che uomini come Benedetto Croce, Giustino Fortunato e Giorgio Amendola spiegavano che la società politica era solo la proiezione di quella civile. Qui i Panama Papers sono spietati. L’Italia politica brillerà per corruzione politica, ma i frequentatori della Studio Mossack Fonseca sono finora attori, star televisive, sportivi, manager. Quelli che spesso diventano censori ed esempi del successo della società civile.