Andreotti come Renzi? Un’equiparazione così inedita meriterebbe una replica altrettanto paradossale e inverosimile: vada pure per l’Andreotti “Belzebù” (come si diceva negli anni 70), o per l’Andreotti “mafioso” (come si è cercato di accertare negli anni 90), ma un Andreotti “come Renzi”, per favore, proprio no! Troppe le differenze antropologiche e culturali, prima ancora che politiche fra i due.



Eppure c’è chi si è avventurato su una tale equiparazione. Su queste colonne del 2 aprile Piero Sansonetti ha affermato: “L’unica accusa che si può rivolgere [a Renzi] è di non avere un pensiero politico, ma neanche Andreotti l’ha mai avuto. In questo i due leader sono molto simili tra loro: entrambi sono centristi e non hanno fatto altro che gestire l’esistente con molto successo politico“. Insomma, la lezione di Andreotti sarebbe riassumibile nell’assenza di un “pensiero politico” quale precondizione per un esercizio ininterrotto del potere; potere da gestire occupando il “centro” della scena politica, in modo da lucrare i voti della “destra” o della “sinistra” dell’arco parlamentare indifferentemente e a seconda delle necessità e dei favori governativi variamente dispensati. 



Non è così! E anzi, la lezione di Andreotti prova proprio il contrario. Dimostra che una gestione del potere duratura e lungimirante non può prescindere da un pensiero politico e da un metodo di realizzazione, a meno di non risolvere il tutto in un’occupazione verticistica e tendenzialmente dispotica della cosa pubblica. Tanto questo è vero, che la lotta politica verso l’uomo è divenuta organica e pericolosa solo in coincidenza dell’avvento e del progressivo consolidamento di un nuovo e antitetico “pensiero politico” internazionale, nel cui ambito è pure inquadrabile la vicenda italiana della Seconda Repubblica e la crisi sempre più pervasiva che affligge il Paese.



E’ vero, piuttosto, che la differenza fra i due politici chiama in campo un diverso modo d’intendere la politica, lo Stato e, in definitiva, le ragioni dello stare insieme.

C’è un modo d’intendere la politica, che verrebbe da considerare di tipo gnostico, intendendo per “gnosi” quell’approccio culturale che prescinde dal dato concreto, sino a creare una realtà che non esiste. Si tratta di una posizione che, anteponendo “una ricerca continua al trovare” (come scriveva von Balthasar), va oltre la realtà, oltre-passa il livello dell’esperienza e della concretezza, degradando sino all’indistinzione fra le diverse opzioni; sicché, una volta snaturata la realtà, essa tende a riversare ogni energia verso una realtà artificiale. S’inquadrano in tale approccio tante delle riforme dell’ultimo ventennio, realizzate (o quantomeno tentate) a seguito delle trasformazioni di una globalizzazione finanziaria compiuta — ancora una volta — per andare oltre l’economia reale; riforme che hanno forzato l’impianto dello Stato, dei diritti e dei servizi, senza però riuscire a conseguire quei risultati pur garantiti dall’assordante propaganda mediatica e di governo.

Per conto, c’è una posizione che verrebbe da definire realistica, la quale cerca di commisurare le riforme alle concrete possibilità del contesto sociale, economico, culturale e politico del Paese, sì da riuscire a conseguire un adeguato accoglimento. Non che il metodo del compromesso sia di per sé risolutivo, o che consenta un’ottimale valorizzazione delle diversità coinvolte; ciò tanto più ora che le differenti idealità e le relative riduzioni ideologiche si sono progressivamente esaurite. E tuttavia, è pur vero che l’applicazione di un tale metodo sia ostativa a una fuga dalla realtà; che il ricorso allo stesso renda più difficile il compiersi di un accordo meramente lobbistico ed estraneo alle necessità del contesto di riferimento. Esso, per contro, in qualche modo costringe gli attori istituzionali a un’aderenza alla realtà; induce gli stessi a tentare di coniugare l’opportunità e il merito di ogni riforma con le contingenze storiche e con le condizioni sociali, politiche, economiche (e certamente lobbistiche) del momento. Il tutto in ragione della consapevolezza che la mancanza di una tale corrispondenza possa ripercuotersi negativamente sul piano della realtà, pregiudicando a seconda dei casi la linearità, il rendimento se non proprio il risultato della riforma stessa.

E’ in una tale prospettiva che va colto il pensiero politico e il metodo di Andreotti. Del resto, basterebbe leggere quanto scritto da Luciano Garibaldi sempre su queste colonne il 1° aprile, per avvedersene. Fu proprio Andreotti a riuscire a realizzare quella strategia d’inclusione della sinistra nei governi di “solidarietà nazionale”, che gli americani avevano fortemente contestato ad Aldo Moro. Come racconta Garibaldi, la vedova Moro svelò nel corso della propria deposizione in Commissione parlamentare le minacce sibilate da Henry Kissinger al marito: “Lei la deve smettere di volere il Pci nel governo. O la smette, o la pagherà cara”.

Rispetto alle difficoltà provenienti da un sistema democraticamente “bloccato”, merito della politica tollerante di Andreotti fu quello di riuscire a realizzare formule, correggere convenzioni geopoliticamente necessitate, sperimentare modelli, che hanno aperto il varco a soluzioni politico-istituzionali astrattamente impensabili; soluzioni che hanno trasformato l’impedimento di un limite invalicabile (l’impossibile alternanza governativa derivante dal bipartitismo “imperfetto” in vigore), in un’opportunità d’inclusione e d’integrazione sociale e istituzionale, essenziale per lo sviluppo e la pacificazione del Paese. 

Del pari, una volta esaurito quel sistema, fu sempre Andreotti a proseguire una politica di equidistanza dalle due superpotenze e di “equivicinanza” (come amava ripetere) con i paesi del Mediterraneo (anzitutto Israele e Palestina), cui corrispose un equilibrio interno diversamente irrealizzabile. Vale forse la pena ricordare che quando fu ucciso Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano artefice, insieme a Yasser Arafat, di un decisivo processo di pace irrimediabilmente interrotto, era il giorno del rinvio a giudizio di Andreotti nel processo a Perugia, che lo vedeva imputato quale mandante dell’assassinio del giornalista Pecorelli. Nel corso di un’intervista nella quale gli si domandava del suo processo, egli rispose che era più tragico quel che era avvenuto in Israele. 

Niente a che fare con le riforme istituzionali poste in essere dal Governo Renzi; riforme che si dimostrano solamente funzionali a consolidare il potere del “capo della forza politica” della più ampia minoranza del Paese, come recita in modo inquietante l’Italicum (art. 2, comma 8, l. n. 52/2015, c.d.); e, soprattutto, riforme che sono destinate ad aprire nuove e pericolose fratture nel corpo sociale.

Scriveva Andreotti in uno degli ultimi editoriali del mensile 30Giorni: “Ho sempre pensato che i ministri più meritevoli siano quelli che invece di affannarsi nell’ennesima riforma, cercano di far funzionare con umiltà il meccanismo che c’è”. Si tratta di un’umiltà che sottendeva una sensibilità politica e una consapevolezza culturale che paiono ormai smarrite. Ed è un tale smarrimento che l’Italia principalmente sta pagando.