“Ma voi con l’Egitto ce l’avete una exit strategy?” La domanda rivolta a Matteo Renzi e a Paolo Gentiloni si fa ogni giorno più stringente. Una domande che sembra essere risuonata anche dalle parti del colle più alto della politica nazionale. Sergio Mattarella segue la vicenda Regeni con preoccupazione crescente e teme che si possa finire in un vicolo cieco. Il timore è di un déjà vu, di un replicarsi del caso marò.



Palazzo Chigi e il Quirinale sono sulla stessa lunghezza d’onda, in ogni caso: il capo dello Stato ha ricevuto la famiglia Regeni, esprimendo plasticamente l’ira italiana per un caso tanto clamoroso quanto intollerabile. Anche a margine del suo viaggio di febbraio negli Stati Uniti la questione era stata posta all’amministrazione Obama, ricevendo discreti segnali di disponibilità a premere sul Cairo per arrivare a una conclusione credibile dell’indagine, troppe volte sviata dall’apparato statale egiziano con giustificazioni assolutamente inverosimili. In fondo Washington aveva tutto l’interesse a evitare che fra due alleati preziosi la tensione salisse oltre il livello di guardia.



La speranza di condurre il governo di Al Sisi sulla via della ragionevolezza è durata dal viaggio americano di Mattarella sino a questa settimana. Il voltafaccia della giustizia egiziana è stato completo, e il rifiuto di fornire i tabulati telefonici è apparso la goccia che fa traboccare il vaso della pazienza italiana. Seguono il richiamo dell’ambasciatore e l’accusa egiziana di fare un uso politico della vicenda. Quale non è chiaro, dal momento che l’Italia non ha alcun interesse ad alimentare l’instabilità in una regione già di per sé terribilmente agitata. L’Egitto è un paese seduto sull’orlo di un burrone che si chiama Libia, e una situazione di caos al Cairo aprirebbe scenari inquietanti soprattutto per noi.



Nondimeno, l’Italia non ha alcuna intenzione di farsi prendere in giro, e Renzi non perde l’occasione di ripeterlo. Vuole la verità, e fa bene a cercarla, almeno dal punto di vista morale. Il guaio sta nella difficoltà della strada per arrivarvi. Dopo il richiamo dell’ambasciatore ogni ulteriore mossa deve essere attentamente soppesata sull’asse Palazzo Chigi-Farnesina-Quirinale.

Si valuta la sospensione degli accordi bilaterali per gli scambi universitari, come pure l’aumento della pressione in tema di diritti umani da operare in sedi internazionali come l’Onu, o la Banca Mondiale. Ma si potrebbe andare molto più in là: sul tappeto c’è la possibilità che i turisti italiani siano formalmente sconsigliati dal recarsi in Egitto. Questo farebbe schizzare alle stelle le polizze assicurative e crollare le prenotazioni. Dire addio a Sharm, Hurgada e alle Piramidi sarebbe davvero un colpo pesante per la traballante economia egiziana, per cui il turismo vale il 20 per cento del Pil. E gli italiani volati sul Mar Rosso nel 2015 sono stati 330mila. Tutt’altro che pochi.

Come potrebbe reagire Al Sisi? Il timore è che ne possano risentire gli scambi commerciali fra i due paesi, enormemente cresciuti da quando il generale ha preso il potere. Nel 2014 l’interscambio è stato pari a 5,180 miliardi di euro, e vale l’8 per cento dell’export egiziano. Tanti soldi, che potrebbero essere messi almeno in parte a rischio. L’elenco delle imprese italiane che investono in Egitto è lunghissimo: Eni, Edison, Intesa Sanpaolo, Pirelli, Italcementi, Ansaldo e ancora Tecnimont, Danieli, Techint, Cementir sono solo le più importanti, ma ci sono anche tante piccole e medie.

Nessuno — va detto — pensa di poter barattare l’acquiescenza sul caso Regeni con gli affari, ma il rischio di un grande freddo fra Roma e Cairo va messo nel conto, e attentamente soppesato. Un governo serio deve saper trovare maniere efficaci per fare valere le proprie ragioni, calcolando il prezzo della verità, che potrebbe essere molto caro. I precedenti, però, non fanno ben sperare. La vicenda indiana dei marò viene considerata la più simile. Nei limiti del possibile è necessario fare di tutto per evitare che si aggrovigli allo stesso modo. E in questo sforzo il fattore tempo è essenziale. 

Ecco perché la domanda iniziale (“ma voi ce l’avete una exit strategy?”) rimane per il momento senza risposta, ma continua a pesare come una spada di Damocle sulla nostra politica estera.