La proposta referendaria sulle trivelle ha il pregio d’aver colto il limite cruciale della politica energetica governativa; ha il merito d’aver sollevato una questione decisiva, la cui mancata soluzione è all’origine delle accuse di lobbismo e affarismo mosse verso l’attuale Governo.
La questione non concerne solamente l’individuazione del soggetto legittimato ad assumere le scelte energetiche nazionali: se il Governo centrale in splendida solitudine e in assenza di un confronto con gli enti portatori degli interessi territoriali, ovvero lo Stato centrale d’intesa con le regioni e con le autonomie locali (così come chiarisce la Costituzione vigente). Più ancora, la questione interessa il modo con cui detta decisione debba essere assunta: se in modo trasparente, sì da rendere accessibili e comprensibili le ragioni delle scelte adottate, ovvero in modo riservato, sì da mantenere il tutto inaccessibile e incomprensibile.
La questione, in altri termini, concerne la democraticità delle scelte energetiche nazionali. Ciò, ovviamente, non tanto nel senso che “tutti debbono decidere tutto“, sì da bloccare irrimediabilmente ogni decisione, quanto, piuttosto, nel senso che nei sistemi democratici “la pubblicità è la regola e il segreto è l’eccezione“. Anche le scelte di politica energetica, pertanto, debbono sottostare ai circuiti democratici di valutazione pubblica, a meno di non rimanere ostaggio degli arcana imperii e delle pressioni “inconoscibili” esercitate dai vari potentati.
Nell’affaire Tempa Rossa, ad esempio, il presidente del Consiglio ha affrontato solamente la prima delle questioni coinvolte (chi decide la politica energetica), ma ha eluso la seconda (la trasparenza della decisione). Rivendicando il merito delle scelte in discussione (“Ho scelto io di fare questo emendamento. Lo rivendico con forza“), egli ha aiutato a chiarire le responsabilità politiche e istituzionali sottese. Tuttavia non ha reso comprensibili le ragioni tecniche, economiche e politiche all’origine delle decisioni governative; non ha motivato i fattori di convenienza nazionale e territoriale derivanti dalle scelte energetiche governative. In definitiva, non ha sopito i sospetti sulle pressioni lobbistiche e clientelari cui il governo avrebbe sottostato.
Analogamente può dirsi con riguardo alla questione delle trivelle. I quesiti referendari furono sollevati da ben nove regioni di diverso colore politico (unico caso nella storia referendaria), al fine di aprire la via a una riforma legislativa per una politica energetica nazionale organica e trasparente. Essi miravano sostanzialmente a rendere effettivo il principio di leale collaborazione fra Stato, regioni e autonomie locali, in modo da razionalizzare il piano delle aree in senso spaziale e temporale. L’intervento a gamba tesa del Governo, tuttavia, ha pregiudicato il compimento di un disegno legislativo unitario. La legge di stabilità del 2016 è intervenuta chirurgicamente, sviando e svuotando di contenuto alcuni dei quesiti referendari; ne è derivata una legislazione ancora più frammentata e disorganica, che ha lasciato in piedi una sola richiesta referendaria.
La richiesta sopravvissuta, tuttavia, solo in apparenza è marginale. In realtà, essa lascia bene intendere la sostanza degli interessi coinvolti. In questo senso essa è simbolica, esprimendo ben più del contenuto specifico.
Emblematica è la posizione assunta al riguardo dal Corriere della Sera. Se Michele Ainis nell’editoriale del 30 marzo aveva giudicato con sufficienza l’azione referendaria (“Pinzillacchere, direbbe Totò“), una volta divulgata la notizia dell’inchiesta che ha portato alle dimissioni del ministro Guidi, lo stesso direttore Lucio Fontana il 2 aprile si è affrettato a rimarcare l’importanza dell’iniziativa (“Solo il sospetto che dietro le autorizzazioni alla ricerca di nuovi giacimenti in mare si nasconda l’interesse, oltre che delle compagnie, di affaristi locali e nazionali può cambiare la natura della scelta che i cittadini dovranno fare il 17 aprile“).
Il fatto è che il Governo non ha spiegato il motivo per cui ha reso temporalmente indeterminate le concessioni già rilasciate per le attività di ricerca e di estrazione degli idrocarburi. Piuttosto che essere prorogabili in presenza di stringenti condizioni ambientali ed economiche, valutabili dallo Stato d’intesa con regioni ed enti locali, dette concessioni sono ora prorogate senza fine per legge, potendo valere “per la durata di vita utile del giacimento” (art. 1, comma 239, legge 208/2015). Le società petrolifere concessionarie, pertanto, potranno continuare a svolgere la propria attività secondo le precedenti condizioni economiche e senza sottostare a nuove valutazioni pubbliche sulla convenienza economica e sulla sostenibilità ambientale di nuove proroghe. Per giunta, trattandosi di un rinvio senza fine, saranno rinviate all’infinito pure le spese per la dismissione delle piattaforme marine, poste a carico delle medesime società alla scadenza delle predette concessioni.
La scelta energetica del Governo in tema di trivelle, insomma, pure a trascurare le ragioni ambientali seriamente coinvolte (si pensi al pericolo di disastri pari a quello del 2010 nel Golfo del Messico), è economicamente dubbia. Essa contrasta con i più elementari principi di competitività economica e di garanzia dell’accesso non discriminatorio alle attività di sfruttamento degli idrocarburi. Piuttosto che favorire la concorrenza a beneficio delle finanze statali, il Governo sembra aver favorito i vecchi concessionari; piuttosto che favorire il mercato, il Governo sembra aver favorito i vecchi mercanti, liberandoli da una dispendiosa concorrenza con i nuovi.
A titolo esemplificativo, si immagini che una famiglia non particolarmente benestante erediti un vecchio e mal messo appartamento e che, piuttosto che svenderlo, decida di darlo in locazione per un certo numero di anni, con l’accordo di compensare le spese di ristrutturazione con la mancata riscossione del canone mensile. Si immagini, tuttavia che, poco prima della scadenza, il Governo intervenga con legge, prorogando senza fine la durata di quel contratto alle medesime precedenti condizioni economiche. Per giunta, si immagini che, alle comprensibili e incredule reazioni dei proprietari, quel Governo reagisca piccato, denigrando le obiezioni degli stessi. Questo, senza tanti giri di parole, è quanto è accaduto.
Senza trasparenza non può esserci né libero mercato, né democrazia. Ecco perché il referendum sulle trivelle riveste un altissimo valore simbolico.