“Non ti accorgi che anch’io sono uno che si muove maldestro, che ogni mio gesto tradisce il desiderio, l’insoddisfazione, l’inquietudine?”.Parlava così il “cavaliere inesistente” personaggio creato nel 1959 da Italo Calvino. Un uomo che credeva errando di essere vivo. Sì, perché le leggi della politica a volte sono crudeli. Quando il Cavaliere nel novembre del 2011 fu disarcionato dal suo IV governo non comprese che quello non era solo l’epilogo di un’epoca di cui era stato indiscusso protagonista, ma la cesura che segnava il fallimento trasversale di un’intera classe politica e dirigente pronta a essere rottamata in blocco. Come ai tempi della caduta della Prima repubblica. Lì la finanziaria di Amato, qui l’ultima legge di stabilità di Tremonti e l’arrivo di Monti svegliarono gli italiani da un lungo sogno di ricchezza apparente. 



Solo l’emergere del renzismo, con la sua carica di distruzione selettiva all’interno del centrosinistra e della sua “storica” classe dirigente, ha consentito, va riconosciuto, di convogliare le pulsioni (politicamente) distruttive di queste fasi di passaggio in forme, al momento, meno traumatiche. Forse a scongiurare un protratto commissariamento del Paese. Basta chiudere gli occhi e pensare oggi al quadro politico eliminando Renzi con un Pd ancora in mano alla vecchia guardia.



La crisi finanziaria del 2011, che aveva portato l’Italia in traiettoria di default, e la caduta verticale e protratta della capacità del Paese di produrre ricchezza, avevano certo avuto nel tempo molti validissimi contributi. Attivi e omissivi. Ma certo chi aveva governato l’Italia, prima di quella data, per circa otto degli ultimi tredici anni non poteva chiamarsi fuori. Tanto più dopo tutto quel promettere rivoluzionari cambiamenti smentiti dai numeri e dai fatti, verso cui notoriamente gli italiani mostrano meno indulgenza rispetto ai costumi. Se la pressione fiscale nel 2000 (durante il governo D’Alema) si assestava intorno al 41,5% del Pil, tra il 2008 ed il 2011 con Berlusconi (dopo il governo Prodi) rimaneva stabile intorno il 42,5%. Con l’ultima Legge di stabilità del ministro Tremonti, a deflagrazione ritardata, si proiettava intorno al 44% del Pil. In tutto ciò, non aveva nulla di casuale che la spesa corrente al netto degli interessi dal 2001 al 2009 fosse passata da circa il 40% al 48% del Pil venendo a cessare, proprio dal 2000, ogni sforzo di contenimento dei precedenti anni. 



Il semplice motivo per cui il Cavaliere non ha subito medesima sorte, venendo rottamato al pari diquella classe dirigente di sinistra con la quale ha condiviso la gestione del potere per circa vent’anni, con il legato drammatico di un’Italia in ritardo su tutto, è l’assenza di un grande partito contendibile alla destra del Pd. Silvio Berlusconi non è infatti notoriamente il leader di Forza Italia. Berlusconi è Forza Italia. Ma questo non porterà le lancette del tempo a girare al rovescio. Per quanto gli italiani soffrano di gravi disturbi alla memoria, le categorie della politica tendono alla semplificazione estrema e alla cristallizzazione feroce dei giudizi. Questo spiega, ad esempio, la sostanziale indifferenza che ha accolto la clamorosa proposta di Corrado Passera di riduzione del debito pubblico per oltre 400 miliardi di euro. Una bomba politica nelle mani di un soggetto che nell’immaginario collettivo potesse vantare una storia personale diversa. Perché non è per nulla indifferente in politica la biografia di una persona e lo stigma che si porta dietro e Berlusconi ha certamente il suo che difficilmente lo proietterà nel futuro. Al di là dei fattori anagrafici. 

Questo ritardo oggettivo nel rinnovamento di un emisfero politico ha però già prodotto due evidenti conseguenze che lasceranno il segno per gli anni a venire. La prima è l’ipertrofia di una destra anti-sistema, che sebbene forte in tutta Europa qui ha sfondato nel ventre molle di un elettorato di destra moderata in rotta, disperso nell’astensionismo e in altre offerte. Ha prodotto cioè un fenomeno tutto italiano di una proposta, che oggi su Roma lancia la sua sfida per proiettarsi quale unico alfiere a destra dell’alternativa al renzismo, che, al pari dell’altro personaggio della trilogia di Calvino nel “barone rampante”, sale sull’albero e sostanzialmente decide di non scendere più. L’opposto di una destra di governo, che preferisce alla Nato la Russia di Putin, a un’Europa federale la disgregazione europea possibilmente con lo schianto dell’euro, che affronta problemi epocali e globali come l’immigrazione con le mani nude del nazionalismo, che non crede al dimagrimento dello Stato, ma alla perpetuazione del buffet con posizioni, ad esempio sulle pensioni (abrogazione della “Fornero”, 80 miliardi di risparmi sulla fiscalità dal 2012 al 2020), che nel contesto dei vincoli attuali di bilancio puoi giusto proporre stando su una pianta. Da lì certo puoi anche combinare tali indicazioni a fantasmagoriche aliquote uniche al 15% senza il taglio di un centesimo degli 827 miliardi di spesa pubblica del 2015. 

Il barone Salvini è espressione più ampia di un’offerta politica che certo spopola in Europa. Ma, e qui sta la nostra poco invidiabile differenza, da quelle parti per ogni Marine Le Pen, Frauke Petri, o Nigel Farage vi è, a fare da argine, un Alain Juppé, una Angela Merkel, un David Cameron. Un partito liberal popolare che governa o si propone di governare e se le suona di santa ragione con i baroni rampanti invitandoli a scendere dall’albero. 

La seconda conseguenza di questo mancato rinnovamento o di questo rinnovamento zoppo è che la gamba che si è evoluta nelle forme pirotecniche del renzismo, in mancanza di un’offerta endogena dell’opposta sfera politica, sta provando a fabbricarla essa stessa. Vi sono narrazioni che vogliono il Cavaliere (spinto dall’ala aziendale) essersi dato appuntamento con Renzi al 2018, o quando si voterà, alla conta per il Partito della nazione. Dietrologie o no vi è certo chi lavora alacremente a questo progetto, e non è solo Verdini, confidando anche nello sfondamento del barone rampante. Ma ancora una volta l’anomalia è evidente. La visione renziana del mondo e in particolare dell’economia si inserisce perfettamente nel solco dell’area politica da cui proviene, legittimamente affiliata in Europa al partito socialista. I conflitti con la Commissione europea di prevalente orientamento politico diverso nascono banalmente da questo. 

Il Presidente del Consiglio e il suo partito sono genuinamente convinti che la crescita dipenda dal mettere più soldi, in ogni forma possibile, nelle tasche della gente così favorendo le politiche dal lato della domanda. Si spiegano anche così le ammoine sui tagli alla spesa che questo governo vede come pericoli (non solo al consenso ma) alla sua politica economica. Una posizione legittima e non originale a sinistra, solitamente convinta che aumentare la spesa pubblica (anche in deficit) sia la strada maestra per produrre benessere collettivo. Qui l’unica apparente differenza rispetto a quella tradizione keynesiana è, tristemente, che la spesa viene indirizzata in prebende varie piuttosto che alimentare l’anemico contributo agli investimenti.

Esiste tuttavia in ogni democrazia occidentale evoluta una visione alternativa. Copernicanamente diversa dalle politiche del settore pubblico e della domanda che opera per “sottrazione”. Meno Stato, meno condizionamenti all’individuo, disboscamento della selva burocratica che soffoca l’iniziativa privata, meno spesa e quale diretta conseguenza meno pressione fiscale. Sono le posizioni di chi nel mondo è convinto, al contrario, che la spesa corrente di oggi non determina sviluppo di lungo periodo, ma solo tasse future. 

In queste visioni la crescita la fa piuttosto l’innovazione, il capitale umano, la capacità di attrarre investimenti e di avere un ambiente favorevole all’impresa. Peraltro a queste posizioni corrispondono blocchi di interessi sociali ben delineati. Il Partito della nazione di Renzi sarebbe allora come l’ultimo personaggio della trilogia di Calvino. Quel “visconte dimezzato” che colpito da una palla di cannone turca pensava illusoriamente di essere intero essendo solo la metà. Ma all’altra metà chi ci penserà?