Dicevano spesso i grandi vecchi della Resistenza e della Repubblica che “la democrazia ha uno stomaco di ferro, riesce a digerire tutto”. Di fronte agli scandali, alle disfunzioni, alle contraddizioni, alle ingiustizie e alle invasioni sgangherate nella vita delle persone di uno Stato spesso ottuso e dispotico, una radicata cultura democratica dovrebbe essere sempre dotata degli anticorpi necessari a salvaguardare le istituzioni democratiche di una società.



Ma forse, in questa grande e antica saggezza, non poteva essere compresa la giovane storia democratica dell’Italia. La sensazione è che un certo livello di guardia sia stato superato. Perché l’odore sgradevole dell’ipocrisia nel Belpaese sta dilagando e non solo “avvelena i pozzi”, ma solleva una cappa di falsità, di ipocrisia appunto, che sta diventando intollerabile e rischia di soffocare l’Italia.



Dopo aver condotto, dai banchi di governo, in modo aggressivo un referendum, su cui la stragrande maggioranza degli italiani ha capito pochissimo; dopo aver politicizzato e stravinto il suddetto referendum in una gigantesca rissa da bar sport tra filo governativi e oppositori al governo, solamente per fare una conta quasi brutale tra amici e nemici, il nostro presidente del Consiglio, Matteo Renzi, all’alba della metà di aprile del 2016, ha scoperto, tuonando in Senato, il giustizialismo italiano: “Credo nei giudici e non nei giudici che violano il segreto istruttorio. Perché noi abbiamo avuto giudici eroi che hanno combattuto contro la mafia e la camorra, ma negli ultimi 25 anni si è aperta una pagina di autentica barbarie legata al giustizialismo”.



Ritornando indietro di 25 anni si arriva giusto al 1992, l’anno in cui si è decisa la svolta italiana con la caduta, per via mediatico-giudiziaria della cosiddetta “prima repubblica”, o meglio della sua classe dirigente di radice democratica, anticomunista e antifascista. Ma il presidente del Consiglio, forse perché giovanissimo e poco informato, si è dimenticato di risalire ancora più indietro, al caso Tortora, per esempio, del 1983. Una vergogna della storia giudiziaria italiana. Con Diego Marmo, pm in processo, che si è scusato dopo trent’anni con la famiglia Tortora, ma nello stesso tempo ha fatto la sua “onorata” carriera in magistratura.

Oggi Renzi vede altri magistrati lanciati in carriera: Piercamillo Davigo, dalla Milano di Tangentopoli alla Cassazione e ora presidente dell’Associazione nazionale magistrati; Paolo Ielo, quello che con “grande stile” ed equilibrio da magistrato diede del “criminale matricolato” nel 1995 a Bettino Craxi, e, di salto in salto, è arrivato a Roma in una posizione cruciale in Procura; Francesco Greco, esperto in reati finanziari, si dice, favorito al posto di comando della Procura di Milano.

Il presidente del Consiglio deve avere avuto una sorta di flashback e il suo sistema nervoso ha subito un cortocircuito. In questo momento, Renzi non gode di popolarità estera, non riesce a risollevare l’economia italiana (la luce in fondo al tunnel la vede solo lui e qualche amico), deve sopportare la quotidiana geremiade sulle pensioni di Tito Boeri e ora deve fare anche i conti con intercettazioni a raffica che escono dalla procura di Potenza e tratteggiano il suo governo come una rete di maneggioni e affaristi. 

A questo punto Renzi si è sfogato. Ma è stato poco convincente. Al Senato infatti sembrava di assistere a una sorta di “gioco degli specchi” a più facce. L’ex giustizialista Matteo Renzi, quello che se l’era presa persino con Anna Finocchiaro per la visita “tutelata” all’Ikea, che aveva quasi maltrattato Annamaria Cancellieri (citiamo solo alcuni casi), urlava contro le “vite rovinate di uomini onesti”. Davanti a lui c’era l’emiciclo di Palazzo Madama, dove tranne qualche decina di senatori, ringraziano tutti il giustizialismo che li ha promossi da “panchinari” della prima repubblica o dell’anonimato a protagonisti di una imprecisata altra repubblica. A scrivere, a filmare questi fatti, una platea di giornalisti che è ormai specializzata nell’attaccare una “casta”, rea di tutte le nequizie italiane. E nello stesso tempo questi “campioni” della libertà di stampa sono sempre pronti ad allinearsi con le inchieste dei pm in modo quasi fastidioso. Si assiste in questi giorni a dibattiti surreali. La frase detta dal ministro Federica Guidi all’ex fidanzato Gianluca Gemelli “Mi tratti come una sguattera del Guatemala” è essenziale o non essenziale alle indagini? Va pubblicata o non pubblicata?

Problemi serissimi, come si può vedere.

Noi ci permettiamo di dire che la tragedia di Sergio Moroni (che l’emerito presidente della Repubblica Giorgio Napolitano conosce molto bene), quella di Lorenzo Necci (40 volte accusato e 40 volte assolto), il dramma di Gabriele Cagliari, il “calvario” di Franco Nobili, presidente dell’Iri incriminato e poi assolto, dopo anni, in modo da lasciare spazio all'”uomo del pendolino”, Romano Prodi, per avviare il programma di privatizzazione e svendita delle imprese pubbliche italiane, fanno parte di una storia più ampia e più complessa.

Abbiamo citato solo alcuni casi tra centinaia, forse migliaia, che meritavano da molto tempo ben altra attenzione che uno scatto di nervi dell’attuale presidente del Consiglio.

In realtà, sul giustizialismo, l’attuale classe dirigente, politica, imprenditoriale, sindacale, giornalistica ha ben poco da dire e al massimo può solo scantonare. Persino Giorgio Napolitano, che si dimostra spesso impaziente verso le iniziative di alcuni magistrati, in molte occasioni ha preferito, in passato, fare l’indiano, cioè defilarsi al momento opportuno. Ed è un autentico dispiacere doverlo ogni tanto ricordare. Ma tutto questo rappresenta una sorta di festival dell’ipocrisia, di sceneggiata condita tra furbizia, opportunismo e menzogne.

In questi anni, mentre si dimenticavano le tragedie, continuavano a crescere gli alfieri del giustizialismo italiano, con una proliferazione di reati, un continuo aggravamento delle pene, il ripetuto ritornello della “certezza della pena”, che dovrebbe rientrare nella corretta dizione della “certezza del diritto”. Anche la prescrizione viene messa in discussione. Ma soprattutto guai a toccare i pubblici ministeri.

Chissà per quale ragione l’Italia soffre spesso di complessi di inferiorità verso gli altri Paesi dell’Occidente, ma quando si parla di magistratura, separazione delle carriere ad esempio tra giudice e pubblica accusa, diventano tutti “coperti e allineati” e soprattutto italianissimi.

Alcuni noti politici e altri noti giornalisti hanno spiegato che la separazione delle carriere era addirittura “un piano piduista”. Quindi la Francia, l’Inghilterra e i paesi occidentali sono tutti piduisti. Lo era, a questo punto, anche Giovanni Falcone che il 3 ottobre 1991, in un’intervista a Repubblica specificava: “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungere nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono quindi esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di parte-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti”.

Questo spiegava Falcone difendendo la separazione delle carriere e in fondo ripetendo un principio di Montesquieu, filosofo che tutti citano ma che pochi hanno letto, il quale sosteneva: “Sarebbe un vero e proprio abuso il fatto che gli stessi soggetti potessero essere giudice e accusatore”. Sulla stessa linea troviamo Tocqueville fino a Piero Calamnadrei, il quale addirittura riteneva necessario evitare “un pubblico ministero totalmente privo di controllo”.

Presidente Renzi, se ci tiene tanto a sconfiggere il giustizialismo cominci lei ad attuare una riforma che il superficiale Silvio Berlusconi non ha mai fatto: attui la separazione delle carriere come avviene nelle grandi democrazie occidentali, anche se deve tenere conto degli “antenati” da cui discende il Pd.

Altrimenti continuiamo a fare finta di niente e a considerare la magistratura italiana la migliore e la più funzionante di tutte quelle esistenti. In occasione dei 90 anni della Regina Elisabetta d’Inghilterra, il Presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, potrebbe andare dalla signora Windsor e convincerla sull’opportunità delle correnti democratico-sindacali che esistono nella magistratura italiana. Siamo certi che Elisabetta resterà stupita.