Nel parlamento si sta discutendo l’introduzione di una cosiddetta legge organica sui partiti. Sarebbe una novità per l’Italia. Si affronterebbero in modo complessivo tante questioni aperte: dalla natura giuridica dei partiti alla loro democraticità, dai finanziamenti pubblici e privati ai sistemi di controlli. Si parla, peraltro impropriamente, di legge “di attuazione” dell’articolo 49 della Costituzione. E’ chiaro, però, che in questo articolo non si fa cenno alla legge, che invece è richiamata in quasi altri cento articoli della Costituzione. Ma questa assenza non è stata il frutto del caso: i costituenti respinsero la proposta di rimettere espressamente alla legge la disciplina dei partiti. L’autonomia dei partiti dalle decisioni assunte con legge dalle maggioranze parlamentari, era (reciproca) garanzia di esistenza proprio di quei partiti.
Come noto, il patto di non intervento legislativo tra i partiti eredi del CLN ha retto sino agli anni Settanta. Poi, le esigenze finanziarie spinsero all’approvazione della “legge Piccoli” del 1974. Ma nell’introdurre il finanziamento pubblico e nel disciplinare — seppure sommariamente — quello privato, si inserì anche la fattispecie penale dell’illecito finanziamento. Questa norma venne improvvisamente “ri-scoperta” dalle procure durante tangentopoli, quando cioè l’esplosione della crisi dei partiti vissuti sotto l’ombrello della guerra fredda condusse alla fine di quasi tutti i partiti della prima repubblica.
Il legislatore si è poi mosso solo sul fronte del finanziamento. Dopo la bocciatura del referendum abrogativo del 1978, vi fu anzi l’allargamento del finanziamento pubblico, anche perché stavano riducendosi buona parte dei finanziamenti dall’estero, e quelli interni ed occulti diventavano sempre più pericolosi. Poi, dopo l’esito favorevole del referendum abrogativo parziale del 1993, si inventò il cosiddetto rimborso delle spese elettorali, che altro non era che la riproduzione — pure ampliata — del precedente finanziamento. Fallita l’invenzione del “quattro per mille” nel 1997, ci si limitò ad escogitare meccanismi di ampliamento del finanziamento.
Dal 2007, anche per rispondere alle critiche crescenti contro “la casta”, si è agito in senso opposto, riducendo i contributi pubblici. Nel 2012 la sempre più diffusa delegittimazione dell’intero assetto rappresentativo — compresi i partiti che ne sono fondamentale asse portante — ha condotto a contrarre i finanziamenti, a creare una commissione di garanzia, e ad imporre un primo abbozzo di “statuto” ai partiti destinatari di finanziamenti pubblici. Nel 2013, si è giunto a decretare la prossima fine del finanziamento pubblico, e ad introdurre forme facoltative di registrazione e principi generici di democraticità interna, cui sono condizionati i trattamenti di favore previsti dalla legge sul fronte finanziario.
Come in buona parte dei Paesi europei, anche in Italia i partiti non costituiscono più da tempo un “sistema” stabile e efficientemente coordinato con le istituzioni rappresentative. Molto congiura contro i partiti. Dall’accentuata rapidità con cui le problematiche sociali si determinano e si modificano, alla necessità di elaborare risposte immediate e a più livelli rispetto a questioni che assumono sempre più spesso rilievo globale, se non epocale.
Dalla strettissima interconnessione tra le istanze nazionali (dal livello locale a quello statale) e quelle sovranazionali e internazionali, al velocissimo mutarsi della composizione della stessa collettività rappresentata. Di fronte a tutto questo, la politica — che trova la sua stessa ragion d’essere nel proposito di confrontarsi con i problemi tutti della polis — si scontra con forze interne ed esterne che hanno molte frecce nei loro archi: dalla finanza alla tecnica, dall’economia alla religione, non mancano forti e talora insopportabili strumenti di pressione e di mobilitazione delle coscienze individuali.
Non sembra, però, che di fronte a queste sfide gravissime, la soluzione possa ritrovarsi in una legge sui partiti che pretenda di dettare, oltre a giuste innovazioni, anche norme sin troppo rigide e costrittive rispetto a quanto sinora avvenuto. Si vorrebbe giungere, cioè, al punto opposto del pendolo nell’esperienza repubblicana: dall’assenza di disciplina legislativa dei partiti, alla disciplina totalizzante — per lo più in senso statalizzante — dei partiti. Si è proposto, tra l’altro, che soltanto i partiti che fossero dotati di personalità giuridica secondo il codice civile (obbligo che attualmente non sussiste e che la Costituzione non prevede) e che accettassero di essere registrati (mentre ora è facoltativo), potrebbero presentare candidati alle elezioni. A tacer d’altro, la registrazione sarebbe subordinata al rispetto di condizioni indicate dalla legge con formule alquanto generiche e soprattutto lasciando spazio a valutazioni pericolosamente discrezionali e per di più senza garanzie di ordine costituzionale. Si tratta di una proposta palesemente incostituzionale e che, dopo i dubbi prospettati da più parti nel corso delle audizioni parlamentari, sembra adesso ritirata. Tra l’altro, ridurre gli spazi di rappresentanza nelle istituzioni è sempre un danno, e non certo un vantaggio per chiunque abbia l’avventura di guidare una collettività ispirandosi ai principi democratici.
In ogni caso, non si devono confondere tematiche rilevanti che vanno senz’altro affrontate con decisione — come quelle della moralità pubblica, del corretto impiego delle risorse pubbliche, e della democraticità interna dei partiti — con il problema della democrazia tramite i partiti. Il rischio è quello di vedere tramontare, insieme con i partiti che abbiamo sin qui conosciuto, gli spazi di democrazia che ancora residuano. Il legislatore può certo intervenire sui partiti, ma dando svolgimento a tutti i principi costituzionali, assumendo uno sguardo lungo, e senza farsi condizionare dalle sirene dell’antipolitica.