Per chi non se ne fosse reso conto, la scissione del Pd c’è già stata. Quella che doveva essere una direzione tranquilla, in nome dell’unità necessaria per respingere i nemici alle porte, si è trasformata nel più pesante attacco frontale mai portato alla leadership di Matteo Renzi nei sui 28 mesi di segreteria dem. Un attacco tanto inatteso, quanto schiacciato con un voto rabbioso e plebiscitario, 98 a 13.
Un voto che significa una sola cosa: siete fuori. La linea del Pd è renzianissima, prendere o lasciare. E se lasciate è meglio, ci risparmiate la fatica di costruire un percorso per arrivare a un divorzio assolutamente inevitabile. Il rischio per chi, come Cuperlo e Speranza, dovesse rifiutarsi di prenderne atto è di finire come quel cavaliere di cui nella Gerusalemme Liberata Torquato Tasso dice: “E il poverin che non se n’era accorto, ancora combatteva ed era morto”.
Game over, tutto finito. Il premier segretario aveva scelto sin dall’inizio del caso “Trivellopoli” di affrontare la questione di petto. Ci ha messo la faccia in tv, assumendosi la responsabilità politica e morale alla Craxi, alzando ancora una volta la posta in palio. Nell’aprire la direzione ha sferrato alla magistratura di Potenza che indaga su Tempa Rossa un attacco nel più classico stile berlusconiano, accusandola di non sapere concludere le inchieste iniziate, invocando sentenze rapide, e non prescrizioni.
Renzi è stato preso alla sprovvista dall’affondo delle toghe lucane, anche perché si trovava in visita negli Stati Uniti, ma ha saputo reagire d’istinto. Ottenuta la non belligeranza di Mattarella, ha convinto Federica Guidi a dimettersi subito. Una mossa fulminea, che ha evitato il logoramento del governo, ma che ha spalancato in casa democratica il baratro di una questione morale non più rinviabile.
Altrettanto alla sprovvista Renzi — ma soprattutto i renziani — sono stati colti dalle parole durissime di Gianni Cuperlo, che non ha messo in discussione l’onestà del premier segretario, bensì le sue capacità di esercitare correttamente la leadership del partito. Un despota, più che un leader. Lui ha reagito esattamente come nel caso Guidi, una seconda brusca accelerazione con cui ha riversato sulla sua minoranza interna l’accusa di non volere gli investimenti, di non voler creare nuovi posti di lavoro, di non volere il garantismo in nome di un giustizialismo alla fine venato di qualunquismo. Una sinistra diversa — ha scandito — quella di Cuperlo.
Il sottinteso è chiaro: o con me, o contro di me. E non potrà non avere conseguenze nel momento in cui davanti al Pd si profilano non uno, bensì due referendum su cui le posizioni sono antitetiche, quello sulle trivellazioni in mare del 17 aprile, e quello costituzionale dell’autunno. I numeri della conta interna sono però inequivocabili, e tutti dalla parte di Renzi. L’opposizione interna può essere tollerata, ancora per qualche tempo, ma i suoi spazi di agibilità politica vanno restringendosi ogni giorno di più. 98 a 13, e la richiesta di anticipare di un anno il congresso ha sempre meno possibilità di essere accolta.
Se avessero coraggio Bersani, D’Alema e compagnia cantante dovrebbero fare fagotto oggi, per tentare di organizzare un soggetto di sinistra concorrente e alternativo al renzismo, sempre più partito della nazione e sempre meno sinistra europea. Ma questo coraggio non si vende al supermercato. Più probabile oggi è che la guerra di trincea continui all’interno, arretrando ogni volta le proprie linee difensive.
Certo, Renzi non è immune da rischi. Non quello che il 17 aprile si arrivi al quorum del 50% dei votanti, quanto piuttosto di un fiasco alle amministrative di giugno. Questo potrebbe rimescolare le carte, e rimettere in discussione la sua leadership sin qui innegabilmente vincente. Ecco perché da qui a giugno il premier segretario non può permettersi altri passi falsi. Deve scegliere con intelligenza il successore della Guidi. Deve sostenere i suoi candidati sindaco. Deve sperare pure che “Trivellopoli” non si allarghi. Altrimenti anche un cardine del renzismo, come il ministro per i rapporti con il parlamento e le riforme istituzionali, Maria Elena Boschi, sarebbe a rischio, dopo aver vacillato per via del ruolo del padre nel caso BankEtruria. La questione morale è più pericolosa di cento sconfitte alle comunali.