“Le stesse forze che parteciparono al colpo di stato del 1964 appoggiano oggi questo nuovo colpo di stato”. A fare questa affermazione non è un pericoloso marxista o, ancor peggio per alcuni, un ex trotskista oggi militante del PT, il partito di Lula Da Silva (che ne è fondatore) e della Rousseff (Presidente del Brasile e storica militante del PT), ma un giovane collega accademico politicamente indipendente e integro, ossia Pedro Fassoni Arruda, autore di “Capitalismo Dependente e Relações de Poder no Brasil (1889-1930)” Editora Expressão Popular, 2010, docente dell’Università Pontificia di San Paolo, una delle più importanti università sudamericane, nota per il livello della sua ricerca scientifica. È un’affermazione che fa pensare, soprattutto se viene anche riportata, oltre che su pochi giornali brasiliani, anche sul Financial Times del 4 aprile 2016, dove spicca la dichiarazione di uno degli studiosi più stimati della stessa nazione, ossia Pablo Ortellado, docente di Pubblic Policy presso l’Università dello Stato di San Paolo, il quale così afferma: “Io non so se questo è un colpo di stato, ma certamente siamo dinanzi a una certa fragilità dal punto di vista giuridico in tutto questo svolgersi degli avvenimenti”.
I fatti sono noti. La crisi economica del crollo del prezzo finanziarizzato delle commodity e della stagnazione da deflazione ha colpito duramente il Brasile, dopo due decenni di forte crescita e di sradicamento della povertà e di creazione di nuove classi medie che ora reclamano più diritti civili e più beni posizionali, ossia bene pubblici come le infrastrutture. E reclamano meno corruzione, in una nazione che – come sanno tutti coloro che non sono distratti dinanzi alla storiografia e alla storia – ha sempre avuto un’altissima frammentazione politico e partitica, per la sua immensità e per il essere uno Stato federale con spiccate autonomie delle classi politiche.
Il Brasile ha già vissuto periodi di grande scontro politico e di divisione dell’establishment. Fernando Affonso Collor de Mello (leader dell’effimero e improvvisato Partito de Reconstrusao Nacional che non sopravvisse al declino politico del suo fondatore) fu Presidente del Brasile dal 15 marzo 1990 al 2 ottobre 1992 ed era il candidato appoggiato dalla potentissima Federacion de Industria de San Paulo, che ne finanziò la campagna elettorale e ne favorì in ogni modo la vittoria. Era un partito nazionalista e personale, caciquista nel più scientifico senso del termine, e non sopravvisse alle lacerazioni che si provocarono tanto nel Parlamento profondamente frammentato, quanto nel sistema degli interessi che si divise profondamente impedendo alla Federazione Industriale paulista di continuare la sua opera di mediazione.
Il Governo che seguì fu quello di Ferdinando Henrique Cardoso, che era stato ministro delle Finanze dell’esecutivo di Itamar Franco dal 1992 al 1994 e che si apprestava a vincere le elezioni favorito da una vasta alleanza che andava da una miriade di partiti centristi sino al partito sorto dal sindacalismo di ispirazione nordamericana, ma di cui molti leader si erano formati in Italia alla scuola della Cisl, e tra questi vi era Luiz Ignacio Lula da Silva, il quale sarebbe poi divenuto capo indiscusso del PT, facendolo assurgere a partito nazionale: raggiunse il 28% dell’elettorato, fatto profondamente nuovo per la vita politica brasiliana. Alla fine dei governi Cardoso, nel 2003, Lula fu eletto Presidente e venne poi rieletto sino al 2013, per lasciare quindi l’incarico alla Rousseff, dopo una schiacciante vittoria elettorale del PT.
Oggi la situazione è rapidamente mutata. È iniziata un’operazione su vastissima scala della magistratura brasiliana, guidata da un gruppo di giovani giudici formatisi negli Usa e che degli attorney Usa – oggi impegnati in una vasta campagna di moralizzazione degli istituti finanziari – si dichiarano ammiratori, impegnati come sono in un’opera, affermano, di radicale pulizia morale della nazione. Essa è seguita alla grande crisi del 2008 e agli eccessi dei manager stockoptionisti. È l’operazione Mensalao, diretta contro i parlamentari che – come accade da sempre in Brasile per via della frammentazione partitica che obbliga decine di formazioni partitiche ad aggregarsi per formare i governi e mantenerli in sella – ricevono fondi pubblici per votare a sostegno del governo.
Ma l’operazione più importante per comprendere ciò che accade in Brasile è quella che in Usa si usa chiamare Operation Car Wash. È iniziata nel 2014 ed è diretta contro Petrobras, di cui la Rousseff fu Chairman prima di divenire ministro dell’Energia e poi Presidente del Brasile. I reati ipotizzati sono corruzione per acquisire appalti e condizioni di favore nelle opere infrastrutturali promosse dalla major, che, non dimentichiamolo, è fortemente controllata dallo Stato e persegue una politica indipendente dalle altre compagnie mondiali (riflettendo in ciò la politica estera brasiliana che ha sfidato sempre l’embargo all Iran e ha sempre avuto ottimi rapporti con la Russia e con Cuba), in un duro confronto con le major storicamente dominatrici dell’oligopolio petrolifero mondiale.
Petrobras rappresenta il punto di forza del rapporto politica-economia attorno al quale si sono aggregati gli interessi delle forze economiche e del PT e di molti altri partiti, tra cui spicca, per esempio, il Partito Progressista (dei 51 parlamentari incriminati ben 32 sono esponenti di tale partito che affonda le sue radici nella gestione della macchina politica che in Brasile si costruì durante la dittatura militare). Quest’ ultima, come è noto, si differenziò profondamente dalla dittatura argentina perché fu desarollolista: promosse lo sviluppo e la modernizzazione del Paese in un regime meno sanguinoso di quello argentino con larghi momenti di ricostruzione di una facciata rappresentativa, riconsegnando ai civili il potere dopo vent’ anni di una dittatura assai simile a quelle turche degli anni Sessanta e Ottanta.
Uno scenario poco conosciuto e poco descritto anche nelle discipline sociologiche ed economiche e che fonda, invece, le radici dell’attuale situazione (vedi l’eccezione di Torcuato Di Tella, “El sistema politico brasileno: partito politico y corporaciones”, in Instituto del Servizio Esterior de la Nacion, Documento de Trabajo n 6, marzo 1995). Questo retroterra storico spiega i timori oggi in corso non solo tra i sostenitori della Rousseff e che si battono contro il suo impeachment, ma anche in vasti settori moderati di quelle nuove classi medie, che tutto vogliono meno che far ripiombare il pPese in una nuova cronica instabilità.
Gli interessi delle grandi major si fanno tuttavia sentire nella vita politica brasiliana, oggi come un tempo dividono, lo ripeto, profondamente l’establishment. Del resto, che dire dinanzi alla condanna a 19 anni di carcere del capo del più grande conglomerato immobiliare brasiliano, Marcelo Odebrecht? Carlos Fernando dopo Santos Lima, uno dei giudici che guidano le inchieste sulle corruzione, ha giustificato l’enormità della condanna sostenendo che si è dinanzi a “un sistema, anche automatico, che controlla i pagamenti illeciti nel settore dell’oil and gas, nelle infrastrutture, negli stadi di calcio”.
Il centro del sistema è Petrobras, così come si afferma anche nell’incriminazione dei vertici del gruppo Safra, grande famiglia di origini libanesi impegnata nelle grandi operazioni immobiliari londinesi e centro della comunità ebraica brasiliana. Insomma: l’attacco a Petrobras è concentrico e non può non insospettire (è la fragilità di cui parlava Pablo Ortellado), a fronte della situazione di un oligopolio internazionale che lotta duramente per far fronte al crollo del prezzo finanziarizzato del greggio e alle difficoltà che incontrano soprattutto le compagnie anglosassoni, da sempre dominatrici dell’oligopolio.
Non può non venire alla mente anche la situazione italiana, grazie a una dichiarazione resa alla stampa dal Ministro Elena Boschi in occasione dello scandalo di Tempa Rossa in Lucania o in Basilicata che dir si voglia, allorché il combattivo ministro ricordava che l’unica volta in cui Ella aveva avuto sentore di pressioni in merito al percorso legislativo relativo al progetto lucano fu allorquando tali pressioni furono esercitate dall’ambasciata del Regno Unito. Essa è molto attiva in Italia e il suo ambasciatore molto si espone sui media televisivi e attraverso una politica di pubbliche relazioni vastissima e avvolgente. Non a caso l’altro grande interlocutore del progetto Tempa Rossa a fianco di Total è la Shell (unitamente a Mitsui), che, come è noto, dal tempo dei lavori petroliferi in Kazakistan, ha impegnato con l’Eni una polemica costante e ininterrotta. L’Eni opera, guarda caso, nell’altro sito lucano di Viggiano, su cui sono incorso inchieste di natura ambientale.
Nel caso di Tempa Rossa il problema è il rapporto tra politica e affari che ha come protagonisti la macchina degli interessi famigliari dell’ex ministro dello Sviluppo economico italiano (dimessosi appena scoppiò l’inchiesta sul percorso parlamentare dei provvedimenti relativi appunto ai lavori in corso nel sito Tempa Rossa). Ma quello che va sottolineato è il delinearsi di un susseguirsi di avvenimenti che tutti hanno in sé un nocciolo duro di sovradeterminazioni economiche rivestite di lotta a una corruzione che va dimostrata e certamente poi perseguita.
Ciò che colpisce, così come ho sempre sostenuto nei miei studi su questo fenomeni tipico delle società capitalistiche oligopolistiche, è il fatto che la corruzione divenga visibile quando fattori di crisi nei rapporti tra politica ed economia emergono sia a livello nazionale che internazionale, rendendo gli attori capitalistici proprietari di imprese variegati protagonisti di dure lotte di spartizione delle spoglie esegui delle risorse di mercato. Di qui la collusione a svantaggio della competizione, pubblica o privata o mista, che quella collusione sia.
Nel caso del settore delle ricerca degli idrocarburi fossili, che tanto clamore sollevano in un’opinione pubblica sempre più orientata verso uno spiccato spirito dei tempi anti-industrialista e luddista, il tutto assume una sorta di dilatazione mediatica straordinariamente subliminale.
Dal Brasile alla Basilicata.