In Italia c’è una compensazione alla deflazione economica che sta bloccando il Paese nella sua perenne, promessa e mancata, “uscita dal tunnel”. Si tratta dell’inflazione di interventi giudiziari (arresti, avvisi di garanzia, interrogatori vari “perché informato sui fatti”) che riguardano, in questo momento, particolarmente i sindaci e alcuni uomini politici. L’ultima botta inflazionistica è arrivata a Parma, dove il sindaco “pentastellato”, Federico Pizzarotti, è stato indagato dalla Procura della Repubblica per abuso d’ufficio.

Un altro avviso è arrivato all’assessore alla Cultura, Laura Ferraris, poi ad altre persone e il tutto riguarderebbe le nomine al celebre tempio della lirica di Parma, il Teatro Regio.

A sollevare polemiche sulle nomine era stato a suo tempo il senatore del Pd, Giorgio Pagliari. Dettagli, in fondo, di una vicenda che entra nelle statistiche, non certo nelle sorprese di un’Italia che ormai sembra paradossalmente “fondata” sulle procure della Repubblica.

Nel frattempo, nell’inchiesta “Tempa Rossa” di Potenza, di comprensione sempre più difficile, è stato interrogato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti, e presto sarà ascoltato il ministro alle Infrastrutture Graziano Delrio.

Naturalmente non vanno dimenticati l’arresto del sindaco di Lodi, il Pd Simone Uggetti, in carcere a San Vittore da oltre una settimana per turbativa d’asta e, formalmente, i tre avvisi di garanzia al sindaco “grillino” di Livorno, Filippo Nogarin. Insomma, il “gran ballo” giudiziario di questi ultimi 25 anni, in occasione soprattutto di consultazioni elettorali, continua.

Forse non siamo aggiornati sulle tabelle statistiche, ma alla vigilia delle elezioni politiche ci fu un tourbillon di indagati parlamentari, alla vigilia delle regionali toccò ai consiglieri delle Regioni. Guarda caso, ora che si è alla vigilia della comunali, è il turno dei sindaci, più qualche traino di inchieste in corso che si accumulano.

A ben vedere, non si capisce bene quali siano i protagonisti delle prossime elezioni che riguardano alcune grandi città italiane. Certamente ci sono i candidati, probabilmente diversi milioni di elettori in meno rispetto alle precedenti amministrative, ma i protagonisti sono sopratutto i pm, i grandi nuovi “feudatari” di questa strana repubblica, che assegnano voti di moralità, non solo mettendo agli arresti, ma anche distribuendo avvisi di garanzia, e, di fatto, arrogandosi indirettamente il diritto di selezionare la classe dirigente politica nazionale, regionale e locale, che può essere “azzoppata” da un provvedimento giudiziario anche se, magari, dopo qualche anno quel provvedimento si è rivelato sbagliato o inconsistente.

A ben vedere è in questo modo che il dibattito politico sul programma per un comune, ad esempio, diventa secondario rispetto al “documento di moralità” che ti viene concesso o revocato. In questo modo, il referente, il garante della funzionalità del sistema, non è più la politica, ma il sistema giudiziario stesso.

E’ così che si crea un vuoto di potere politico che lascia esterrefatti, nella completa assenza di partiti strutturati secondo criteri di selezione democratica interna, non occasionale come le cosiddette “primarie”. Ed è così che la magistratura diventa l’unico grande potere corporativo, che difende le sue prerogative, dividendosi il suo ambito di controllo quasi in una sorta di “feudi”. Sembra di vedere un nuovo assetto feudale, dove le procure risentono anche di vecchie tradizioni consolidate e spesso si contrappongono le une alle altre.

In Toscana e in Emilia ad esempio, si nota come il bersaglio sia il “nuovismo” del M5s. In altre regioni si pensa invece al Pd, che è rimasto sorpreso di essere diventato un bersaglio e di non avere più la prerogativa della “diversità” che gli sarebbe stata tramandata dalla celebre e politicamente inconsistente “questione morale” che pose Enrico Berlinguer. Cioè, l’eredità delle “grandi lezioni” del leninismo e di più precise operazioni finanziarie che è inutile ripetere e ricordare in questa sede, ma che si possono (se si vuole) ritrovare in documenti e libri scritti e pubblicati.

Alla fine, nella gara tra il moralismo dei grillini, che si sviluppa a giorni alterni, tra dichiarazioni di “non esistenza delle presunzione di innocenza per i politici”, di “valutazione caso per caso”, di “adesso ci informiamo e vediamo se farli dimettere”, e il moralismo sempre più edulcorato del Pd, l’agenda politica la dettano le procure. E qualsiasi risultato esca dalle urne, sarà sempre la magistratura a dettare i tempi della stessa politica amministrativa.

E’ un fatto a cui siamo abituati da un quarto di secolo. Spesso le procure sono intervenute anche sul futuro di un’azienda, sia a livello nazionale che a livello internazionale. Per l’Italia sembra che tutto questo sia regolare. Ma non bisognerebbe forse riformare l’impianto della giustizia, sia penale che civile, “per entrare nel gruppo dei Paesi occidentali avanzati”, come si sente dire per ogni cosa?

Inutile ritornare sulla separazione delle carriere, perché fanno tutti orecchie da mercanti. E’ per alcuni una provocazione, soprattutto “perché l’Italia è l’Italia” (questo è l’argomento principe anche dei noti costituzionalisti e filosofi del diritto che si oppongono a ogni riforma) e, di conseguenza, il pm resta sempre una figura sacrale.

Purtroppo quasi un “para-giudice”, come lamentava Giovanni Falcone, che per questa ragione e per aver accettato di lavorare al ministero di Giustizia, si beccò del “traditore” da alcuni benpensanti che solo oggi lo ricordano come un “eroe”. Evidentemente questo è un Paese dove anche gli “eroi” esistono, per alcuni, a intermittenza.

Con molta ironia, un grande magistrato come Carlo Nordio ha ricordato recentemente che il nostro codice penale, nel suo corpo complessivo, risale al 1936, ai tempi del giurista Alfredo Rocco e del Cavalier Benito Mussolini. 

Forse una “spolveratina” complessiva bisognerebbe dargliela. Forse una grande riforma generale, non solo della giustizia penale, date le storture che spesso avvengono e dati i rapporti problematici esistenti, e spesso ricorrenti, tra giustizia a e politica bisognerebbe vararla al più presto.

Ma la questione appare problematica. Il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ha detto recentemente che i giudici hanno il dovere di “vigilare” sull’attività dei politici. Ma questo dovrebbe valere per i protagonisti di tutte le istituzioni pubbliche. Per quale ragione specificare la categoria dei “politici”? C’è in ballo qualche equilibrio di potere o di governo da preservare?