Ci accingiamo ad andare verso una forma di democrazia decidente“. Così si è espresso il presidente del Consiglio Matteo Renzi intervenendo in aula a Montecitorio sui contenuti della riforma costituzionale. Mi piacerebbe definire queste sparse considerazioni su tali contenuti come: la saga dei “non è vero”. 



Innanzitutto, non è vero che la riforma recherà senz’altro un miglioramento della qualità della democrazia, perché la democrazia non riesce migliorata semplicemente comprimendo la dimensione della rappresentanza politica bensì articolandone la composizione senza per ciò penalizzare l’efficienza dei processi decisionali. In un ordinamento a struttura pluralista, come il nostro, ridurre la rappresentanza politica nazionale implica il rischio di pericolose semplificazioni, soprattutto quando la previsione di una sola Camera elettiva, rappresentativa del popolo dello Stato, è abbinata ad un sistema elettorale accentuatamente maggioritario. 



Il nuovo testo costituzionale delinea un assetto di bicameralismo asimmetrico (o imperfetto, o diseguale) che qualifica il Senato come organo “di rappresentanza delle istituzioni territoriali”. Dietro tale definizione, volutamente generica, si cela a ben vedere un’eterogeneità di interessi e di istanze che sarà molto difficile — per non dire impossibile — rappresentare in maniera unitaria od integrata riconducendole ad unità reale. 

Ciò, tanto più se si considera che delle istituzioni territoriali fanno parte le Regioni, ma anche le Città metropolitane (le Province saranno abolite), i comuni di medie, piccole e piccolissime dimensioni che compongono il variegato sistema italiano delle autonomie. Quali interessi riusciranno allora prevalenti in Senato ed otterranno una rappresentanza in quella sede?



E’ vero, dunque, che la riforma pone mano alla questione del bicameralismo italiano (perfetto, quanto meno sul piano dei poteri e delle funzioni assegnate alle due Assemblee), da troppo tempo inteso come uno dei mali endemici del nostro assetto di democrazia parlamentare. Ma ciò non significa che tale questione trovi finalmente un’adeguata soluzione, in grado di assicurare una chiara individuazione degli interessi territoriali ivi rappresentati e di favorire, per ciò, un’adeguata mediazione con gli interessi unitari tutelati dalla Camera elettiva. 

E’ del tutto verosimile, anzi, supporre — senza fare troppo esercizio di fantasia o di pessimismo costituzionale — che il nuovo assetto organizzativo possa generare non poche conflittualità, soprattutto nel momento in cui la maggioranza politica presente alla Camera dei deputati non trovi corrispondenza in quella che è presente in Senato, somma di consiglieri e sindaci-senatori.

Chi riesce rafforzato dalla riforma costituzionale? 

Di certo i partiti politici vedranno rafforzato il loro potere decisionale e di influenza sul personale politico all’interno delle istituzioni parlamentari. Del resto, basti porre mente alle dinamiche di alcune esperienze comparate (ad esempio la Germania), in cui la portata dell’azione della rappresentanza all’interno dell’Assemblea composta dai governi statali tendeva a mutare in ragione della sintonia o meno di tratto politico con la Camera parlamentare. La conseguenza era quella di una sorta di elusione del dettato costituzionale, con una negoziazione generale tra le due assemblee in merito all’approvazione della gran parte delle leggi federali. 

Ma la riforma rafforza anche la posizione dell’esecutivo, nella misura in cui il nuovo assetto organizzativo insieme ad una legge elettorale di marcata impronta maggioritaria ne consolida la capacità di indirizzo sulla condotta della sua maggioranza parlamentare. 

Da parte di alcuni, politici e non, si preconizza poi un miglioramento della legislazione, nel suo procedimento come nelle sue fonti. 

Ma non è vero. In primo luogo, non può essere il mero richiamo a nuovi modelli di democrazia diretta, come i referendum propositivi, che tuttavia necessiteranno di una ulteriore legge costituzionale istitutiva, a giustificare tanto entusiasmo, e nemmeno la previsione di tempi certi e di limiti formali alla decretazione d’urgenza, definiti sulla scorta di una legislazione precedente. 

Inoltre, sarebbe quanto meno azzardato prefigurare un miglioramento della legislazione con il nuovo quadro costituzionale di riferimento, che definisce procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta).

Verosimile è ritenere, invece, che ciò finisca per innalzare il livello delle incertezze e dei conflitti interistituzionali che pure la riforma — a detta dei suoi promotori — intende attenuare o eliminare, con la conseguenza di lasciar crescere il contenzioso costituzionale, tanto in relazione ai giudizi di legittimità costituzionale, quanto ai conflitti di attribuzioni intersoggettivi. 

Ma nemmeno è vero che il rinvio costituzionale ad una disciplina regolamentare del cosiddetto statuto delle opposizioni valga di per sé ad avviare il  transito verso un’alternanza programmatica “regolamentata e trasparentemente garantita”. 

In primo luogo, perché tale previsione può significare ex se poco o nulla sul piano pratico, a meno che non fosse la stessa Carta fondamentale a tipizzare ruolo e funzioni delle opposizioni nelle dinamiche della forma di governo. Ma così non è e la previsione non vale molto a chiarire i contenuti della differenza funzionale esistente tra “minoranze” ed “opposizioni”, ai fini dell’azione parlamentare. Peraltro, e a tutto dire, basterebbe una riforma del regolamento parlamentare della Camera dei deputati per formalizzare uno statuto delle opposizioni in cui vengano precisati poteri e competenze assegnate a queste ultime. 

In questo contesto, parlare di passo avanti verso un modello di “democrazia decidente” (citando Piero Calamandrei) appare almeno azzardato, se non proprio demagogico. Ma certo è più facile (o semplicistico) etichettare come “conservatori” o  “reazionari” chi solleva critiche di natura tecnico-dogmatica alla riforma piuttosto che confrontarsi con serenità sui profili (tanti, purtroppo…) problematici che presenta il testo prossimo al voto referendario. 

Sembra, a chi scrive, che le modifiche apportate al modello di democrazia parlamentare qual è attualmente vigente non vadano senz’altro nella direzione di favorire quella “razionalità sostanziale” che Konrad Hesse, un autorevole costituzionalista tedesco, intende come essenza della democrazia. Non mi sembra, dunque, si viaggi verso il livello delle migliori democrazie liberali europee. Ciò non può passare inosservato, coperto sotto la coltre insidiosa della comunicazione politica partigiana che esalta, di questa riforma, soprattutto il fatto che essa sia passata dopo anni di “giri a vuoto” del Parlamento, seppure… a colpi di maggioranza. 

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