Il discorso pronunciato da Matteo Renzi a Bergamo in occasione dell’apertura della campagna referendaria presenta un inciso che lascia ben intendere il motivo per cui la riforma in consultazione continui a essere temuta da tanta parte della popolazione; continui a essere considerata come parziale e divisiva, piuttosto che a garanzia dell’intera comunità nazionale. 



Trattando del bicameralismo e della trasformazione del Senato, il presidente del Consiglio ha richiamato il pensiero di Enrico Berlinguer, quasi a sottolineare la continuità d’impostazione fra l’ipotesi di riforma prospettata dall’allora segretario del Pci e quella realizzata dall’attuale premier-segretario del Pd. Ha dunque affermato: “anche Berlinguer parlava di monocameralismo“. 



In realtà il richiamo al pensiero di uno dei più amati e rimpianti leader della sinistra italiana sembra argomentare il contrario di quanto avrebbe inteso motivare.

L’opzione di Berlinguer verso il monocameralismo, così come l’originaria contrarietà della sinistra italiana verso il bicameralismo, deve essere meglio contestualizzata; deve essere collocata all’interno della visione più partecipativa della cosa pubblica perseguita ai tempi. Per dirla tutta, deve essere compresa all’interno di un sistema di tipo proporzionale, qual era quello all’epoca prescelto e sostenuto. Del resto, era talmente radicata la consapevolezza della necessità per il governo di godere di un consenso sociale e politico assai più diffuso di quello meramente numerico connesso alla fiducia delle Camere, che proprio Berlinguer soleva realisticamente ripetere che non si sarebbe potuta governare l’Italia con il semplice 50 per cento più uno dei voti parlamentari (allora conseguiti, per l’appunto, in via proporzionale); e fa specie che il rilievo non sia stato richiamato nei commenti di questi giorni. 



Tale preoccupazione non solamente sottendeva l’esigenza di una maggioranza parlamentare assai più vasta di quella governativa, per realizzare ogni tipo di riforma strutturale del Paese; più ancora, dimostrava l’essenzialità del primato della politica ai fini del funzionamento delle formule istituzionali e, in definitiva, della persistenza dell’impianto democratico.

Diverso è il discorso riguardante il bicameralismo pasticciato introdotto dalla riforma in consultazione, il quale si pone nella diversa prospettiva elettorale tracciata dall’Italicum. Non che il problema sia quello di tornare al proporzionale (al momento anche il solo pensarlo rischia di apparire antistorico); e tuttavia restano drammaticamente aperte le preoccupazioni paventate da Berlinguer. Né si potrebbe replicare sostenendo la mera contingenza e casualità del combinato disposto fra l’Italicum e la riforma costituzionale. E anzi, proprio Roberto D’Alimonte, il politologo che ha disegnato gli assi portanti della nuova legge elettorale insieme a Denis Verdini (come ha documentato Massimo Parisi, deputato aderente ad Alleanza Liberalpopolare-Autonomie, nel volume Il Patto del Nazareno. 18 gennaio 2014-31 gennaio 2015, Rubettino, 2016), ha confermato una tale consustanzialità:

“L’attuale riforma non è la soluzione ideale al problema dell’equilibrio tra governabilità e rappresentatività in questa fase della nostra storia. Ma, combinata con il nuovo sistema elettorale, è una soluzione realistica che risponde ad un modello coerente che tende da una parte a dare più potere agli elettori e dall’altra a responsabilizzare il governo, dandogli i mezzi per attuare il programma con cui è stato eletto e di cui dovrà rispondere. Il modello di governo resta parlamentare, ma il governo non sarà scelto dai partiti dopo il voto ma dai cittadini con il voto” (Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2016). Sicché è proprio sulla riduzione e sulla manipolazione degli spazi parlamentari di rappresentanza che il nuovo sistema costituzionale rischia di insediarsi.

In altri termini, se Berlinguer compensava le restrizioni degli organi parlamentari (il monocameralismo) con un ampliamento delle garanzie della rappresentanza politica (sistema proporzionale e governi con ampia fiducia parlamentare), la riforma in consultazione opera in senso contrario: alla riduzione degli spazi parlamentari (bicameralismo di facciata e monocameralismo sostanziale) fa corrispondere tanto uno squilibrio fra minoranza e maggioranza di governo (le opposizioni politiche non sono tutelate in Senato), quanto una riduzione degli spazi di rappresentanza elettorale (preminenza governativa del “capo” della minoranza elettorale più suffragata, come recita in modo inquietante l’Italicum) e una vanificazione della partecipazione politica (incremento dell’astensione).

Eppure, dal punto di vista degli interessi in gioco, non è che le cose siano cambiate in meglio dai tempi di Berlinguer. Né tantomeno si può immaginare che in un momento storico in cui nell’Europa continentale è cresciuto il quantum di consenso politico necessario per governare, a causa dell’intensità straordinaria dei problemi in corso, si possa provvedere con risposte governative decise da minoranze-maggioritarie; ovvero, che riforme ad alto impatto economico e sociale possano essere imposte e gestite con percentuali decimali di suffragio elettorale. Se una tale eventualità era impossibile ai tempi della guerra fredda, come realisticamente osservava Berlinguer, ancor meno sarebbe possibile ora che gli squilibri geopolitici sono coerenti con le nuove emergenze del mercato globalizzato.

Per contro, già ora si assiste a un’inedita e preoccupante riduzione degli spazi parlamentari. Non può non provocare inquietudine quanto denunciato dall’ex ministro Giulio Tremonti in Senato, a proposito delle rigide misure adottate dal Governo per tutelare la segretezza del Ttip, il nuovo Trattato Transatlantico destinato a sostituire l’accordo del 1994 sul libero commercio mondiale (Wto). Nell’intervento pubblicato da ilfattoquotidiano.it, si ascolta il senatore lamentare le indebite restrizioni governative imposte ai parlamentari. La consultazione della documentazione riservata all’esame dei senatori è stata limitata per “massimo un’ora, sotto la vigilanza dei carabinieri” e con una serie di gravami che nulla hanno a che vedere con gli obiettivi di trasparenza e diffusione. Di qui la laconica conclusione: “C’è stata una fase della storia in cui i trattati sono stati segreti e quella è una fase che ha portato ad esiti tragici. I trattati non possono essere segreti, lo può essere la trattativa, ma non i trattati“.  

L’inquietudine diviene ancor più manifesta se poi si apprende che analoghe restrizioni sono accadute pure in altri parlamenti europei, come si legge in altri siti a proposito di una pari denuncia mossa da una parlamentare tedesca.

E’ a fronte della sostanziale impossibilità degli organi democratici di cogliere e interpretare le necessità imposte dal cambiamento economico, che i circuiti decisionali dei sistemi democratici si dimostrano insufficienti a farsi portatori del sovraccarico delle istanze popolari. Più la rappresentanza popolare è variamente conculcata, più gli interessi esclusi debordano dai tradizionali moduli della mediazione parlamentare, per sfociare in quella terra di mezzo occupata dall’antipolitica, se non proprio in quella terra (che solo apparentemente è) di nessuno, occupata dalla violenza politica (solitamente eterodiretta).

Era questa la consapevolezza sottesa alle argomentazioni di Berlinguer. Una consapevolezza a quanto pare smarrita. Nel mentre anche in Austria e in altri paesi europei le divaricazioni politiche e sociali diventano sempre più stridenti e laceranti.

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