Il panorama inquietante riguarda sempre la situazione economica del Paese e non solo. La “gelata” del crollo a marzo della produzione industriale è arrivata come una brutta botta e ha rimesso tutti con i piedi per terra, dando la sensazione che da questa lunga e maledetta crisi non si è ancora fuori, non si riesca a uscire. La responsabilità è complessiva, generale, globale se vogliamo usare il termine ormai abusato, ma in Italia ha delle sue particolarità preoccupanti (si pensi solamente all’entità del nostro debito pubblico), nel mezzo di una campagna elettorale amministrativa importante, che riguarda anche le più grandi città del Paese e in attesa di affrontarsi alla scadenza clou, il referendum sulle riforme costituzionali, di ottobre.



Stefano Folli, ex direttore del Corriere della Sera, grande analista politico, dotato di un realismo sconosciuto quasi in Italia, attualmente editorialista di Repubblica, conviene sul fatto che questa crisi aggiunge un pizzico di angoscia e un po’ di thrilling alla situazione italiana.

Scusi Folli, non le sembra che di fronte a questo dato, nella tarda primavera del 2016, ci sia un effetto delusione che investe l’opinione pubblica italiana? Forse gli italiani pensavano di essere arrivati finalmente a vedere la luce alla fine del tunnel, per usare una metafora molte volte ripetuta, e per questo la delusione potrebbe essere ancora più forte.



Il problema è che un po’ tutti, compresa l’opinione pubblica, hanno ritenuto che i problemi dell’economia, dell’occupazione, della pressione fiscale siano legati esclusivamente alle riforme, alle leggi di riforma. E’ come se a un certo punto si fosse immaginato che il Jobs Act riuscisse a risolvere i problemi della disoccupazione. Questa è un’aspettativa che non ha fondamento. Un conto è creare condizioni idonee alla crescita, un altro conto è la ripresa vera dell’economia con investimenti, creazione di posti lavoro, ripresa della domanda interna. Certo che si avverte in giro un’aria di delusione, che non è di certo sfuggita neppure al governo e al presidente del Consiglio.



Eppure un uomo sensato, un tecnico di valore come il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, sostiene che le riforme istituzionali hanno moltissimo a che fare con l’economia come ad esempio le semplificazioni.

Tutto questo ha fatto parte della strategia di governo di Matteo Renzi. E’ evidente che il premier ha puntato molto sulla simbologia delle riforme. Viene spontaneo dire che Renzi abbia cercato di suggestionare l’opinione pubblica italiana con questo lancio di riforme, con progetti e con messaggi di ottimismo. Io non credo che questo schema usato da Renzi in questi mesi sia del tutto sbagliato. Ci sono degli errori di fondo, è evidente, ma c’è anche la voglia, il tentativo di galvanizzare un Paese, di coinvolgerlo in una ricostruzione, di spingerlo a reagire.

In fondo, in una crisi come quella che abbiamo vissuto e ancora stiamo vivendo, la necessità di alcune boccate di ossigeno, di incoraggiarsi a vicenda è necessaria, anche da un punto di vista economico. Che questo comporti un rischio delusione è inevitabile.

 

Intanto, guardando alla strategia del premier, c’è l’impressione che continui a spingere sull’acceleratore, sia cioè aggressivo e categorico, sopratutto in vista del referendum sulle riforme costituzionali e trascuri invece le elezioni amministrative imminenti. E’ una sensazione giusta? 

Io non affatto credo affatto che Renzi trascuri le amministrative, che non pensi ai risultati che usciranno dalle urne delle grandi città. Credo che Renzi ragioni politicamente, sapendo che alla fine sul risultato delle amministrative ha maggiori possibilità di trovare argomenti a difesa, collegandosi a realtà locali, a situazioni più contingenti. Ma nella sostanza il risultato gli interessa moltissimo.

 

E sul referendum?

Credo che su questa scadenza, su cui punta moltissimo, abbia imparato qualche cosa anche dall’ultima discutibile “uscita” di Maria Elena Boschi. La prima cosa è che è meglio che parli lui e basta. O comunque che dia una linea piuttosto uniforme. Poi, credo che sia venuto il momento di frenare e che probabilmente lo abbia compreso. Non è possibile che sul Sì e sul No a questo referendum ci sia una discriminante come quella che è stata impostata all’inizio, anche precoce, di questa campagna referendaria. Uno scontro di questo tipo alla fine può veramente nuocere allo stesso presidente del Consiglio.

 

E con questa impostazione, pare che si stia acuendo sempre di più lo scontro all’interno del Pd. Con Bersani e Cuperlo che continuano a distinguersi e con toni duri, pesanti. Lei crede che con le differenze che esistono all’interno del Pd si profili all’orizzonte una possibilità di divisione, di scissione, di uscita della minoranza dal partito?

Personalmente credo che le ragioni, i motivi per una rottura, per un’uscita della minoranza dal Pd siano aumentati. Il disaccordo sui metodi, sul modo di condurre la campagna elettorale, la campagna referendaria si è approfondito ulteriormente. Io penso che alla fine non ci sia una ragione logica che possa tenere insieme ancora la minoranza a questo Pd. A meno che la minoranza ritenga che al di fuori del Pd non conti assolutamente nulla, che non abbia alcun spazio politico reale e sia marginale nel futuro assetto politico. Logica vuole che si arrivi, alla fine, a una separazione.

 

I toni usati da Bersani sono stati pesanti, non solo per quanto riguarda le “uscite” di Maria Elena Boschi, ma anche per i riferimenti che sono stati usati nel ripescare vocazioni monocamerali di alcuni personaggi storici della sinistra italiana, del Pci in particolare. 

Ma in questo caso sono rimasto personalmente un po’ sbalordito. Ma come, i rappresentanti di un partito di “rottamatori” e il segretario dei “rottamatori” vanno a ripescare dichiarazioni che si adattavano a un altro contesto storico e politico? Mi è parsa una forzatura con poco senso.

 

Questa situazione italiana è immersa in un contesto internazionale che è denso di incognite. Tutti si stanno interrogando sul futuro dell’Europa, su quanto accade in Francia e sulla crescita dei movimenti anti-europeisti. E poi c’è la scadenza della Brexit, la possibile uscita della Gran Bretagna dall’Ue. In fondo, si guarda anche a quello che sta avvenendo negli Stati Uniti in vista delle prossime presidenziali.

Qui siamo veramente nel regno dell’incertezza. Non è facile immaginare un’Europa senza Gran Bretagna e anche a quali condizioni il Regno Unito potrebbe rimanere all’interno dell’Unione. Così come è difficile immaginare quale Europa, sicuramente in via di revisione e di ripensamento, possa uscire da questa ventata di caduta dello spirito europeo che c’era all’inizio degli anni Duemila. E’ una grande incognita.

 

Un’ultima domanda, Folli, che appare quasi come una curiosità. Ma si sa qualche cosa delle inchieste, come quella di Potenza, che riguardano il governo?

Rispondo molto brevemente: non ne so proprio nulla.

 

(Gianluigi Da Rold)