E se, alla fine, la sfida più importante di queste amministrative si definisse per un pugno di voti? Il Campidoglio è la preda più ambita, e tutte le formazioni politiche ci si giocano una fetta del proprio futuro. Per Grillo la vittoria della Raggi costituirebbe la consacrazione del suo movimento. Per Renzi se il dopo Marino avesse il nome di Roberto Giachetti la via verso la vittoria al referendum di ottobre sarebbe spianata. Per il centrodestra c’è da decidere se è più attrattivo il progetto moderato targato Berlusconi-Marchini, oppure quello più populista del duo Meloni Salvini. Anche per la sinistra Roma costituisce il tentativo di certificare la propria esistenza in vita, cosa che però passa più per l’esclusione di Giachetti dal ballottaggio che da un buon risultato di Fassina.
Man mano che ci si avvicina alla data fatidica del 5 giugno la campagna elettorale si scalda, e gli ultimi giorni promettono scintille. In parallelo si sgretolano le certezze della vigilia. Sui sondaggi ufficialmente è sceso il silenzio prescritto dalla legge, eppure le voci non cessano di circolare. Prima del black out la fotografia scattata dalle rilevazioni demoscopiche vedeva Virginia Raggi nettamente in testa, con Giachetti, Meloni e Marchini a contendersi il secondo posto al ballottaggio con distacchi strettissimi.
A prender per buone certe voci di corridoio che si sono sparse negli ultimi giorni, la situazione sarebbe in rapida evoluzione. Sotto gli occhi di tutti sono i limiti della front runner, la candidata a 5 Stelle. Troppo sotto tutela dei vertici del Movimento, troppo eccentriche alcune sue proposte, dalla funivia per risolvere i problemi del traffico, sino agli assessori a tempo. In più, la portabandiera grillina si sottrae ai confronti diretti con gli altri candidati, un comportamento che in troppi leggono come un segnale di debolezza.
Che in un clima del genere i suoi consensi ne possano risentire appare plausibile, un calo ci potrebbe essere, rispetto alla cifre rotonde di un paio di settimana fa. Certo è che se la sua marcia, all’inizio trionfale, dovesse rallentarsi, per Grillo ed i suoi sarebbe davvero una brutta sorpresa. Sulla corsa verso il Campidoglio M5s ha investito tutte le sue energie.
Poniamo il caso che a Roma siano tre i candidati a finire a poche migliaia di voti l’uno dall’altro, Raggi, Giachetti e Meloni. Sino a pochi giorni fa sembrava uno scenario impensabile, invece potrebbe concretizzarsi nel voto del 5 giugno. Allora ogni ballottaggio diventerebbe possibile, e l’escluso ne pagherebbe pesanti conseguenze politiche. Potremmo avere un classico destra-sinistra (Giachetti contro Meloni), con Berlusconi che a quel punto sosterrebbe la leader di Fratelli d’Italia, oppure una sfida tutta al femminile (Meloni contro Raggi), dove la pentastellata avrebbe maggiori chances.
Oppure potremmo avere il duello sino a pochi giorni fa considerato più probabile, una specie di sfida all’ultimo sangue fra i portabandiera di Grillo e di Renzi. Un antipasto di qualcosa che potrebbe ripetersi a livello nazionale. Al contrario, se la Raggi fosse esclusa dal ballottaggio, per i 5 Stelle il colpo potrebbe essere letale ed aprire una crisi interna di portata assai ampia.
Fuori dai giochi, sempre secondo le voci di corridoio che leggono nelle nebbie, sembrerebbe in questo momento l’ipotesi centrista, che sembra non avere trovato l’appeal giusto per sfondare fra gli elettori moderati. Il momento di difficoltà parrebbe confermato dal concentrarsi di Marchini soprattutto in attacchi contro la Meloni. Se con uno sforzo di mobilitazione l’asse fra la destra romana e Salvini riuscisse ad approdare al ballottaggio, sarebbe certificato il prevalere dell’ipotesi populista su quella centrista, cui non resterebbe che scegliere fra rompere, oppure accettare la leadership del capo del Carroccio.
Lo scenario più inquietante per la destra è però quello di Meloni terza e Marchini quarto, irrimediabilmente fuori da ogni chances di vittoria finale. Per l’ex ministro della Gioventù si tratterebbe di una vittoria nella corsa interna al centrodestra definibile come una vittoria di Pirro. Sancirebbe che quella prospettiva politica non avrebbe sufficiente forza per affermarsi come quella egemone sull’area orfana di Berlusconi e della Forza Italia del bel tempo che fu. Anche le velleità di Salvini ne uscirebbero ridimensionate.
Certo, per il centrodestra rimane il rammarico per questo braccio di ferro interno. Se si fosse presentato unito, avrebbe quasi certamente prenotato un posto nel ballottaggio. E questo rischio di condannarsi all’irrilevanza va tenuto ben presente anche a livello nazionale per il futuro: se l’area moderata non saprà ritrovare ragioni di unità intorno a un nuovo leader, consegnerà il paese al duello fra Renzi e Grillo, e se stessa alla marginalità.