Finora — da più di dieci anni — Matteo Renzi non ha mai sbagliato un colpo e quindi saprà lui perché ha deciso di oscurare il voto del 5 giugno dando inizio alla campagna per il referendum costituzionale con cinque mesi di anticipo. Una sovrapposizione che ha visto lo stesso presidente del Pd, Matteo Orfini, dissociarsi ironizzando sul fatto che “nei ritagli di tempo ci si dovrà occupare anche del voto del 5 giugno”. Perché il premier sembra prendere le distanze dall’imminente voto? Stando ai sondaggi Renzi dovrebbe essere tranquillo. Fassino a Torino e Merola a Bologna sono sicuri della conferma: oltre il 40 per cento già al primo turno con il doppio dei voti dell’antagonista al ballottaggio. A Milano tutti i sondaggisti danno per scontata la vittoria di Sala e a Roma Giachetti è in ascesa mentre la Raggi è in discesa. A Napoli c’è la sconfitta più probabile con il prevalere di de Magistris, che però è il sindaco uscente sostenuto in passato dal Pd.  



Forse Renzi dispone di altri dati e può darsi che lo preoccupino la rilevanza degli astenuti nel voto amministrativo e soprattutto — in quanto segretario del partito — il risultato delle singole liste Pd. Vediamo i principali casi.

A Milano protagonisti della campagna elettorale sono il candidato sindaco, Giuseppe Sala, e il sindaco uscente, Giuliano Pisapia. Entrambi non del Pd e con liste proprie. Capolista del Pd è un assessore, Majorino, peraltro esponente di una minoranza e che ha avuto scarsa visibilità. A Napoli, con il segretario regionale inquisito e la candidata sindaco, la Valente, abbandonata da Bassolino, il Pd, continuamente attaccato anche da Saviano, non sembra avviato a un buon risultato. A Roma ad aumentare la confusione è arrivata nei giorni scorsi la sentenza della III sezione del Tribunale civile che ha risuscitato i 110 circoli sciolti dal commissario Orfini per Mafia Capitale con la motivazione che accusa il presidente del Pd di “alterare il meccanismo piramidale con cui ciascun iscritto viene rappresentato” e di “ingerenze dei vertici nell’imminenza delle elezioni”.



Ma anche là dove il Pd è più forte non mancano crepe. A Bologna la prodiana Amelia Frascaroli che guida una lista a sostegno di Merola fa concorrenza elettorale bollando il Pd come “partito scollegato dalla realtà”. Infine a Torino proprio dalle colonne de La Stampa si lamenta che alla vigilia del voto crescono una “voglia di cambiamento” e “una temibile protesta contro l’establishment” ovvero quel che una delle più autorevoli voci della sinistra cittadina, lo storico dell’economia Giuseppe Berta, definisce “un inner circle che monopolizza le posizioni di responsabilità” sempre con “gli stessi nomi”. 



Tirando le somme, il 5 giugno, nel voto delle cinque principali aree metropolitane d’Italia, il Pd sarà probabilmente lontano dal risultato delle europee e il premier, come segretario del partito, rischia di essere nuovamente incalzato dalla polemica sul doppio incarico. 

Matteo Renzi sembra quindi prepararsi a contrattaccare il 6 giugno mettendo sotto accusa il peso negativo della “ditta” postcomunista e contrapponendo al Pd sconfitto battaglieri Comitati del Sì che prefigurano una nuova lista elettorale vincente.

Ma anche su questo fronte non sembra una buona idea aver trasformato il quesito referendario in una mozione di fiducia personale. Infatti il referendum è sempre stata l’occasione per sommare voti non sommabili sul terreno programmatico: da Salvini a Zagrebelsky, da Casa Pound ai centri sociali “Che Guevara”. La Boschi lancia l’appello all’unità antifascista, ma — da sempre e in tutto il mondo — nei referendum chi marcia diviso colpisce unito ed è così che son caduti i De Gaulle e i Fanfani. 

Giorgio Napolitano ha subito reagito preoccupato alla trasformazione del referendum in mozione di (s)fiducia che rischia di mettere in secondo piano le novità della riforma costituzionale. Di certo il fronte del Sì non si è allargato (ma si son create le premesse per ripensamenti e dissociazioni). Il nuovo presidente della Confindustria, Boccia, si è schierato per il Sì, ma ha smentito l’ottimismo di Renzi con un gelido: “La ripresa non c’è”.

L’annuncio di Renzi di dimissioni in caso di sconfitta provoca certamente il massimo di mobilitazione tra i sostenitori, ma anche tra gli avversari e rischia, a cinque mesi dal voto, di mettere in moto il festival del piano B. A cominciare dal Quirinale. Matteo Renzi non ha alle spalle un mandato degli elettori e formalmente per il capo dello Stato è un extraparlamentare a capo di una maggioranza di transfughi. E Sergio Mattarella non può procedere a elezioni anticipate in un clima di confusione sulle Camere da eleggere. In aggiunta la Corte costituzionale proprio ai primi di ottobre deve pronunciarsi sull’Italicum che Renzi ha dichiarato rigorosamente intoccabile. Il premier corre il rischio di una destabilizzazione anche da parte della Consulta. 

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