Nel giro di un mese o poco più, la magistratura ha messo progressivamente sotto pressione il governo di Matteo Renzi. Senza andare troppo per il sottile, si è passati dall’inchiesta in Basilicata (con il caso del ministro Federica Guidi e del suo ex fidanzato) all’avviso di garanzia al presidente del Pd della Campania, Stefano Graziano, per concorso esterno in associazione mafiosa. Arrivando infine all’arresto del sindaco di Lodi, Simone Uggetti, per turbativa d’asta. Uggetti è un fedelissimo, oltre che il successore a Lodi, di Lorenzo Guerini, vice di Renzi e portavoce del Pd.



Se si osserva questa sequenza, se si pensa allo “scambio di vedute” tra il presidente del Consiglio e il nuovo presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, è inevitabile vedere la progressione di uno scontro che si sta facendo sempre più duro e che si allarga. Non lasciamoci ingannare da presunte sceneggiate con “scatti d’ira” a cui seguono, per poche ore, dichiarazioni più concilianti. Lo scontro c’è, esiste, si allarga ed è difficile immaginare come finirà.



Si assiste infatti a una sorta di nervosismo schizofrenico. Interviene Renzi, in prima persona, e dice che “non c’è nessun complotto della magistratura”. Fiducia nei giudici e nei pm dunque, con la sola preoccupazione di processi che arrivino brevemente a sentenze. Ma mentre Renzi dice queste cose, dopo il confronto avuto con Davigo, per 48 ore si apre quasi una bagarre di dichiarazioni, ripensamenti e smentite all’interno del Consiglio superiore della magistratura. Uno dei consiglieri laici del Pd, Giuseppe Fanfani, apre una polemica durissima annunciando la presentazione di una pratica per verificare la legittimità dell’arresto del sindaco di Lodi. In sostanza, Fanfani apre una polemica sulla sproporzione tra reato e arresto del sindaco di Lodi, che in tanti, direttamente o indirettamente (forse anche il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone) fanno notare. Passano poche ore e insorgono i consiglieri di Area, poi il presidente della prima commissione del Csm, Renato Balduzzi, poi di nuovo l’Anm. Tutti concordi e sdegnati, pronti a definire l’iniziativa di Fanfani come “un’indebita interferenza” sul procedimento a carico di Uggetti. “Invece di processare i politici corrotti, si vogliono processare i pm che scoprono i reati” gridano i grillini. Fino a che Fanfani fa una retromarcia poco convinta.



Ma il grande spettacolo della giustizia italiana non è ancora finito.

Arriva una dichiarazione, attraverso un’intervista al Foglio del consigliere togato del Csm, Piergiorgio Morosini. Secondo il giornale, Morosini parla sostanzialmente di un pericolo-Renzi: “Se passa la riforma costituzionale abbinata all’Italicum il partito di maggioranza potrò decidere da solo i membri della Consulta e del Csm di nomina parlamentare”. In sostanza, secondo Il Foglio, Morosini avrebbe detto che bisogna “fermare Renzi”.

E quindi si rinnova la polemica, perché a questo punto, mentre Morosini smentisce tutto e dice di aver parlato “informalmente” con un giornalista, interviene il Guardasigilli, Andrea Orlando, e chiede un incontro chiarificatore con il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini.

E’ uno spettacolo incredibile, una diatriba tra poteri dello Stato che mette i brividi. Meglio affermare che la confusione regna ancora sovrana tra politica e giustizia dopo 25 anni di scontri periodici e ricorrenti. E forse sarà bene rendersi conto che accompagnerà la vita politica del governo di Matteo Renzi fino alle amministrative di tarda primavera e poi al referendum di autunno, dove ci si misurerà niente meno che sulla riforma costituzionale.

E’ per tutto questo, per quello che sta avvenendo anche in questi giorni, che non si può ignorare che in Italia si stia consumando una “guerra dei 25 anni” tra magistratura e politica, senza l’ipotesi di una pace possibile all’orizzonte. E’ lecito a questo punto chiedersi il perché, per quale ragione il Paese debba vivere in questo perenne stato di instabilità.

La risposta a questa domanda viene da un una sorta di “fronte del no”, che è sempre esistito, che si è consolidato, sempre opponendosi a qualsiasi revisione della Costituzione italiana da oltre trent’anni, al precario equilibrio dei poteri che raggiunsero i “padri costituenti” con la Carta del 1948. Allora si era di fronte a una situazione interna e internazionale che doveva essere affrontata con coraggio per una riappacificazione nazionale e una chiara collocazione internazionale dell’Italia nel mondo libero, definito ancora prima di Yalta, nelle democrazie occidentali. Poi era già prevedibile e previsto che occorressero cambiamenti.

La favola della Costituzione più bella del mondo, in effetti, è passata attraverso i compromessi più incredibili, con assensi e tentativi di forzatura persino dell’ambasciata sovietica dell’epoca. In questo modo, il bicameralismo perfetto lasciava spazio alle opposizioni in Parlamento, soprattutto a quella fortissima di sinistra, di condizionare pesantemente l’azione del governo. Così come nella sfera giudiziaria il potere del pubblico ministero, libero da qualsiasi vincolo, ha consentito per anni di creare dapprima “porti delle nebbie” e poi un’azione di disturbo, spesso strumentale, all’azione della politica. Il tutto veniva accompagnato da una bardatura burocratica da lasciare di stucco qualsiasi uomo di fine Novecento.

C’è sostanzialmente una “difesa di bandiera” della Costituzione e degli equilibri di potere raggiunti nel 1948 che ha radici quasi nostalgiche, ma anche di interessi consolidati e di conservatorismo marcato.

Il senatore Napolitano vede tre diverse attitudini nel fronte del “no”: “Quella conservatrice: la Costituzione è intoccabile, non c’è urgenza né bisogno di rivederla. Quella politica e strumentale: si colpisce la riforma per colpire Renzi. E quella dottrinaria ‘perfezionista’. Dubito fortemente che tutti i costituzionalisti e giuristi che hanno firmato il manifesto contro siano d’accordo su come si sarebbe dovuto fare la riforma”. Non solo. Napolitano sembra consigliare allo stesso Renzi di non personalizzare troppo lo scontro. C’è una svolta da attuare, non una battaglia personale da vincere.

Ma questo “fronte del no” di carattere politico è accompagnato da un altro “fronte”, quello della magistratura, che teme, in una eventuale riforma costituzionale, un successivo ridisegno degli equilibri tra i poteri, magari seguendo finalmente anche in Italia “L’esprit des lois” di Montesquieu, delle democrazie moderne e realizzabili (non quelle lunari) e una riforma della giustizia che non si ferma solo “all’acqua di rose” delle ferie e della responsabilità civile del giudice. Ma magari affronta il tema che l’illuminista francese specificava considerando “un vero e proprio abuso il fatto che gli stessi soggetti potessero essere juge e accusateur”. Cioè giudice e pubblico ministero.

Sarà un caso, ma la guerra tra politica e magistratura comincia in realtà nel novembre del 1987, quando il referendum indetto dai radicali, dai liberali e dai socialisti sulla responsabilità civile dei magistrati ottiene un consenso superiore all’80 per cento. C’è chi mastica amaro e forse comincia a pensare che Bettino Craxi “non poteva non sapere dei finanziamenti occulti”, mentre tutti i segretari del Pci, compreso Enrico Berlinguer (che gestiva personalmente uno di questi fondi), potevano non sapere.

La paura di un cambiamento costituzionale e un nuovo equilibrio, anche se possibile o ipotizzabile, nell’equilibrio dei poteri ha una stessa bandiera di riferimento: quello della “questione morale” agitata da Berlinguer, riportata come un manifesto programmatico nell’intervista con Eugenio Scalfari nell’agosto del 1981. Mentre il Pci è alle corde e tutto il mondo comunista e la famosa “lezione di Lenin” è arrivata al capolinea.

Così, quando si deve affrontare il dopo guerra fredda, scatta il fronte della conservazione nostalgica. Non ha alcuna importanza se l’Italia è attraversata da incursori finanziari ed economici, si preferisce azzerare una classe dirigente piuttosto che rinunciare alla conservazione dei propri interessi. La magistratura comincia la sua “guerra”, l’apparato mediatico l’appoggia. L’Italia sembra galleggiare su una barca insicura. Arriverà la mareggiata della grande crisi, la recessione, ora la deflazione, affrontata da dilettanti allo sbaraglio e poi da “giovani marmotte”, come ha scritto Paolo Cirino Pomicino. C’è un filo rosso che unisce tutti questi fatti e alla fine si comprende che l’attacco della magistratura al Pd, oggi, è in fondo un altro episodio della (per ora) “guerra dei 25 anni”.

Una riforma rappezzata, piena di contraddizioni e pure pericolosa in alcuni aspetti, sembra quasi meglio di un ammuffito impianto costituzionale contrabbandato per il migliore del mondo da una retorica e da un’ipocrisia che non conosce limiti.

Matteo Renzi sbaglia a muoversi con un’arroganza che non tiene conto del pericolo che rappresentano gli avversari. Ma se al referendum la riforma verrà bocciata, l’impressione di Napolitano sembra quella più giusta: “Per l’Italia è finita. Non ci sarà più nessuna riforma”. Siamo arrivati, in questo guazzabuglio, alla scelta del “meno peggio”.