Politica contro magistratura e viceversa? Non esattamente: un ruolo da protagonista lo hanno anche i media, che imputano alla politica — ma non alla magistratura — una “questione morale”. Il costituzionalista Stelio Mangiameli commenta così lo scontro tra politica e toghe, mentre non sono ancora rientrate le polemiche sulle parole del consigliere del Csm Morosini sulla necessità di “fermare Renzi”.



Negli ultimi tempi abbiamo assistito ad una moltiplicazione delle inchieste al centro delle quali ci sono i politici, dall’ex ministro Federica Guidi al sindaco di Lodi Simone Uggetti. Si tratta di uno scontro tra poteri?

Cominciamo col dire che il sistema politico e istituzionale è profondamente cambiato per due cause concorrenti e concomitanti. Il ridisegno politico-istituzionale è figlio della globalizzazione che sconvolge le democrazie rappresentative e la divisione dei poteri per la penetrazione di altre forme di potere concorrenti. Inoltre, la recente crisi economica internazionale, non del tutto superata, ha mostrato l’incapacità degli stati nel realizzare politiche anticicliche sulla base dell’assetto tradizionale della statualità.



Con quali conseguenze?

Globalizzazione e crisi hanno dato vita a una diversa articolazione dei poteri in cui la politica fa tutt’uno con il potere legislativo e il governo, mentre la magistratura si contrappone alla politica e alle sue forme. Questa tensione tra politica e magistratura si svolge sotto gli occhi di un terzo potere, quello espresso dai media, che gioca a costruire, non senza manipolazioni a volte, l’opinione pubblica. 

Dunque le parti in lizza sono tre, non due come potrebbe sembrare a prima vista.

Proprio così. Questi tre poteri, che potremmo esprimere nel triangolo mpm (magistratura, politica, media), devono trovare ancora i loro punti di raccordo e questa circostanza evidenzia, al momento, solo gli scontri. Tuttavia, ritengo che finiranno con l’accordarsi come a suo tempo fecero i sovrani con la borghesia.



Eppure, alle frecciate polemiche del capo del governo (i pm devono andare a sentenza etc.) hanno risposto quelle del presidente dell’Anm. Questo scontro in Italia non è nuovo. E’ la ripetizione del film già visto con Berlusconi? 

Apparentemente sembrerebbe essere la stessa saga del periodo di Berlusconi, ma in realtà c’è una profonda differenza. Berlusconi accusava la magistratura di essere comunista, le cosiddette “toghe rosse”, e di avercela con lui; Renzi, al contrario, sfida i giudici e chiede le sentenze. Berlusconi temeva le sentenze e alla fine è stato condannato e ha subìto l’esclusione dal Senato e i servizi sociali. Renzi sembra certo che i magistrati non sono interessati a imbastire processi e produrre sentenze; per Renzi i magistrati attraverso le indagini, più o meno fondate, vogliono solo rivendicare il loro potere politico e condizionare le scelte della politica. Insomma, nel caso Berlusconi la magistratura se la prende con un cittadino, anche se potente, dichiarandolo colpevole, nel caso Renzi la magistratura entra nell’agone politico e si dispone allo scontro.

Lei che lettura dà del caso Giuseppe Fanfani (consigliere laico del Pd nel Csm, ndr)? 

Fanfani porta lo scontro tra politica e magistratura entro l’organo di autogoverno della magistratura, che è presieduto dal presidente dalla Repubblica, ma è composto ormai di politici — e non più di bravi giuristi scelti dal Parlamento, come voleva la Costituzione — e ovviamente di magistrati.

 

E cosa dice di Piergiorgio Morosini (consigliere del Csm in quota Magistratura democratica, ndr)? Ha fatto dichiarazioni politiche molto pesanti, apertamente ostili alla riforma costituzionale promossa dal capo del governo.

Questo è esattamente l’altra parte che si affretta a fare sentire la sua voce eguale e contraria. Dopodiché è anche probabile che l’arresto del sindaco di Lodi possa presentare degli elementi di abnormità; ma non è questo il punto. Lodi, come la Basilicata, come la Sardegna, sono ormai lo specchio di un nuovo sistema di poteri.

 

Come giudica nel merito le parole di Morosini, quelle sul “rischio di una democrazia autoritaria”?

La nostra non è più una vera democrazia rappresentativa già da un pezzo e precisamente dall’adozione delle leggi elettorali del 1993, il cosiddetto mattarellum. La democrazia come l’abbiamo intesa tradizionalmente si basava sui partiti di massa che assicuravano la partecipazione e la presa in considerazione dei cittadini. Adesso i partiti somigliano a piccole oligarchie che lottano tra loro, non per fare partecipare i cittadini, bensì per ottenere il potere per la gestione delle risorse pubbliche che raramente torna a vantaggio dell’interesse generale. Se da questo possa derivare un modello autoritario non è ancora detto. Certo è che anche la magistratura non è un potere democratico e che la gestione delle procure non è sempre conforme allo spirito del codice. 

 

Lo può dimostrare?

Basti pensare alle indagini rese eclatanti dai media che sortiscono solo un effetto politico di impedimento o per favorire un determinato evento, salvo a non approdare a nulla e dopo, per evitare l’ignominia del nulla di fatto, si trascinano per decenni contro ogni previsione del codice, o attraverso lo spacchettamento tra più procure dell’indagine, oppure attraverso l’inclusione nell’indagine di persone nuove spesso più che estranee agli accadimenti. Questa situazione schizofrenica tra politica e magistratura oggi si riflette bene nella discussione del pacchetto giustizia al Senato: da un lato si discute sul prolungamento dei termini di prescrizione, dall’altro si cerca di imbrigliare la tecnica dilatoria delle indagini delle procure. 

 

Non le viene il dubbio le frizioni tra Anm e Renzi abbiano in qualche modo a che fare con il referendum d’autunno, che Renzi ha volutamente politicizzato?

Potrebbe essere, anche se nella riforma non vi sono cambiamenti — ed è un limite — che riguardano le norme sulla magistratura e la giurisdizione e neppure le disposizioni che riguardano le amministrazioni. La riforma riguarda essenzialmente il Senato e il riparto delle competenze tra Stato e Regioni. Dubito che i magistrati si contrappongano alla riforma costituzionale perché credono nel bicameralismo perfetto e nel regionalismo come forma di stato.

 

Renzi però…

In ogni caso Renzi fa male a personalizzare il referendum costituzionale e a trasformare la riforma costituzionale in un fatto divisivo. Renzi nel paese è minoranza e, in questo modo, coalizza i propri avversari e li manda in soccorso, strumentalmente, dei magistrati, come nel caso del M5s, che sicuramente a livello locale ha i suoi problemi.

 

Torniamo al cattivo triangolo magistratura-politica-media. La “questione morale” riguarda solo i politici?

La questione morale ormai investe tutti, anche i magistrati e tutte le giurisdizioni ne sono toccate. Qui entrano in gioco i media che sono sempre pronti a segnalare con dovizia di particolari la questione morale della politica, ma della giustizia “ingiusta” tendono a non occuparsi, mentre invece è un dato ormai ampiamente misurato che i cittadini accusano la magistratura di essere lontana da loro, di costare troppo e soprattutto di essere ingiusta.

 

La personalizzazione del referendum voluta dal capo del governo ha l’effetto, scontato e prevedibile, di confinare nell’Ancien régime chiunque non sia per il Sì. E’ possibile sottrarsi a questo gioco?

A mio modo di vedere questa impostazione nuoce soprattutto a chi l’ha promossa, perché c’è molta nostalgia del passato, quando in Italia la politica era un qualcosa di vissuto e di coinvolgente. Quanto al merito della riforma, il testo varato dalle camere è sicuramente migliore rispetto a quello presentato l’8 aprile 2014 dal governo, ma è pur sempre molto rozzo e contraddittorio. Nel merito meriterebbe molte critiche tecniche e costituzionali e non è più una questione di nostalgia o di Ancien régime, perché noi necessitiamo di aggiornare la nostra Costituzione, ma dovremmo farlo tutti insieme, bene e in modo autorevole.

 

(Federico Ferraù)