La riforma costituzionale che saremo chiamati, dopo l’estate, ad approvare o a cancellare col referendum suggerisce, nel titolo della legge votata dal Parlamento, che al centro della stessa vi sia una nuova struttura del Parlamento e una diminuzione di enti inutili (il Cnel) nonché dei costi della politica. E, in effetti, di questo tratta la legge.
Tuttavia, guardandone in filigrana il testo, vi si può leggere una più profonda e globale intenzione, che sta venendo progressivamente alla luce anche nelle dichiarazioni più recenti dei suoi demiurghi, il presidente del Consiglio e il ministro per le Riforme e che ben si confà anche al binomio riforma costituzionale-legge elettorale. Si tratta del tentativo di introdurre nella nostra forma di governo tratti di quella democrazia governante che andrebbe a sostituire la democrazia consociativa, tratto dominante non solo della prima ma anche della seconda repubblica.
In estrema sintesi (e semplificando al massimo): la democrazia governante è un sistema democratico in cui il popolo individua chi governerà, tendenzialmente per tutta la legislatura, per poi — allo scadere della stessa — misurare l’operato del governo per confermarlo o per sostituirlo con membri dell’opposizione.
Per ottenere un simile risultato — che è una sorta di semplificazione dei rapporti politici, molto complessi nelle forme di governo parlamentari a pluralità di partiti — non basta una riforma elettorale a risultato certo, come parrebbe essere l’Italicum. Occorrono almeno alcuni elementi istituzionali che verrebbero forniti dalla riforma: un parlamento più snello che concentra in una sola camera i meccanismi propri del rapporto di fiducia con il governo (fine del bicameralismo perfetto), un sistema di produzione legislativa tendenzialmente centralizzato (sostanziale abbattimento del potere di legiferare delle Regioni), un controllo da parte del governo dell’agenda parlamentare (voto a data certa, che permetta di ridurre l’uso del decreto legge, eccetera). Sono, come si vede, tutti elementi presenti nel nuovo testo costituzionale che affianca la legge elettorale e che permetterebbe al sistema istituzionale italiano di funzionare come le più moderne democrazie avanzate.
Tutto perfettamente coerente, dunque? Potrebbe anche essere; sotto la pressione dell’Europa, che spinge verso l’efficienza, sotto la minaccia del crescente populismo, che contesta in modo stabile e con successo l’azione di governo, minacciati da una crisi che non ha cessato di mordere famiglie e sistema economico, avere un governo governante non può non piacere.
La questione è, ora, di capire se — partita la locomotiva e posto che parta — anche altri tasselli andranno a posto, prima tra tutte la strutturale inefficienza dell’amministrazione, ma poi anche l’incapacità del sistema Paese di valutare in concreto le scelte politiche del governo (funzione non a caso incorporata nella seconda Camera, il Senato, senza peraltro che vi sia una diffusa e condivisa expertise in materia), la ricomposizione dei sistemi di governo locale, la cui regolamentazione e il cui finanziamento restano sparsi tra diversi livelli di governo, e molto altro ancora.
La strada è dunque ancora lunga ma, come si diceva nell’ambito della Commissione dei saggi del governo Letta, per fare riforme occorre tempo e con governi a scadenza ravvicinata le riforme non si possono fare. Occorre stabilità. Il tentativo in atto è almeno un primo passo in una direzione istituzionalmente corretta.