Anche se il Pd non è andato al ballottaggio a Napoli, è facile prevedere, alla luce della conferenza stampa di Renzi sul primo turno delle amministrative, che sarà proprio Napoli al centro di questi quindici giorni di campagna per i ballottaggi di Roma, Milano, Torino, Bologna. Perché a Napoli andrà in scena, con il commissariamento annunciato in diretta del partito provinciale, l’impegno di Renzi sul Pd: della serie “ora ci metto mano io”. Un po’ per rispondere alle critiche sul doppio ruolo di premier e segretario a ridosso dei risultati di domenica 5 giugno, ma soprattutto per lanciare un messaggio agli elettori: è andata così così perché non ho potuto metterci mano io, ma adesso ci sono io, e quindi tranquilli. Dovesse andar bene, sarà un modo per dire che domenica 19 avrà vinto lui, come sempre fin qui.
La strategia è rischiosa, perché è un rilancio al tavolo della campagna elettorale, e questa volta Renzi non potrà dire che è un fatto locale di cui si è interessato fino a un certo punto. Come sembrava dalla sorpresa manifestata in conferenza stampa per l’esclusione dal ballottaggio a Napoli, dove “non ha funzionato niente” ed è stato “deluso”. Con conseguente annuncio di commissariamento.
Il punto è che Renzi su Napoli a sostegno della Valente le mani ce le aveva messe, eccome. E con un sostegno persino generoso, con diversi appuntamenti in città, chiudendone poi la campagna elettorale a valle di importanti e significativi impegni per Bagnoli. D’altro canto la strategia della campagna elettorale a Napoli (scelta della candidata per frenare in tutti i modi le ambizioni di Bassolino, alleanza con Ala di Verdini) è stata decisa a Roma, da Renzi e Lotti; ipotizzando di bissare strategia e risultato di De Luca alla Regione. A Napoli nessuno ha deciso niente, da anni non sono in grado. Così come non sono stati in grado di proporre alternative credibili alle ambizioni di Bassolino, che né Renzi né De Luca volevano sostenere. Eppure era chiarissimo a tutti fuori del Pd, e ai più assennati (pochi) nel Pd napoletano, che contro un de Magistris in grande spolvero bisognava proporre una figura autorevole con un forte profilo civico, e che non fosse un politico di professione. In città ce ne erano, ed anche nel partito: circolavano, tra gli altri, i nomi di Luigi Nicolais, già ministro, e del filosofo Eugenio Mazzarella, parlamentare Pd nella legislatura scorsa. Un altro tentativo con molti dubbi, su cui il partito locale si era messo d’accordo, era il presidente dell’Ice Riccardo Monti. Napoletano egregio ma assente dalla città da troppo tempo e quindi senza ormai alcun radicamento, è naufragato su sondaggi impietosi facendo emergere tra le varie ambizioni locali in campo la soluzione interna: la candidatura della “giovane turca” Valeria Valente, già pupilla di Bassolino e sua compagna di stanza alla Fondazione Sudd dell’ex sindaco fino al giorno prima, e assessore con la Jervolino.
De Magistris, attento osservatore del Pd napoletano e nazionale, aveva per tempo capito che il suo vero competitor sarebbe stato Renzi, e se n’è uscito con lo spot — che gli ha dato ragione — della “derenzizzazione della città”. Della serie: ce la vediamo io e il premier, sollecitando l’orgoglio identitario dei napoletani ferito dal commissariamento gestionale delle politiche urbanistiche della città su Bagnoli, dal salernocentrismo dell’alleato di Renzi De Luca, da anni di disinteresse nazionale. La sciagurata gestione delle primarie e l’accordo con Verdini, che in città conta pochissimo, hanno fatto il resto. Tutto questo era chiarissimo nei dubbi sui social e della stampa non prona alle strategie del Nazareno.
Quindi commissariare chi? Renzi dovrebbe commissariare in verità se stesso e chi con lui ha gestito la partita Napoli, anziché usare ancora una volta Napoli per giochi che passano sopra la sua testa, come la candidatura espressione dei “giovani turchi” a Napoli in compenso all’appoggio a Giachetti a Roma. Una strategia che per essere onesti, e non gettare la croce addosso al solo Renzi, è propria del Pd su Napoli fin dai tempi di Veltroni. In quasi dieci anni di vita del Pd, a Napoli non si è fatto nulla per risolvere i guasti di un partito locale autoreferenziale, che è riuscito a scendere dal 30 per certo di Veltroni all’11 e rotti di domenica 5 giugno. Un partito chiuso a tutto e connivente con l’interessata tutela romana a tenere Napoli, dopo Bassolino, fuori dai giochi che contano nel Pd.
Ma Napoli è una capitale, nonostante tutti i suoi guasti. Una città che ha dato al paese tre presidenti della Repubblica — De Nicola, Leone, Napolitano — e almeno quattro sindaci di grande presa sulla città — Lauro, Valenzi, Bassolino, de Magistris. Come a dire che Napoli ha un capitale identitario in grado di esprimersi sia ai massimi livelli istituzionali, sia a livelli popolari e/o populisti. Pensare di poterla trattare come una periferia che aspetta da Roma le sue soluzioni è ingenuo e illusorio, e ingeneroso verso quella grande città che è stata e che è. E miope per la grande risorsa che rappresenta per il Sud e per il paese.
Sulla città c’è bisogno, nella politica nazionale, e al Nazareno, di un’urgente riflessione che non sia un commissariamento di partito per “fare ammuina” in vista del 19 giugno. E’ un dato di fatto che oltre a de Magistris, tre quinti del direttorio dei 5 Stelle vengano da quelle parti. Forse che abbiano capito i napoletani come sono visti e trattati dalla politica nazionale?