Il comune è il cuore della vita politica nazionale. La conferma di ciò risiede nel fatto che, nel corso delle elezioni comunali, anche i partiti personali non riescono mai a essere pienamente se stessi, ossia a stabilire un rapporto diadico verticale tra il capo, o i piccoli capi locali, sol mediato nel suo rapporto con l’elettorato dai mezzi di comunicazione di massa. Ci son candidati che, per il fatto di apparire spesso in televisione, credono che ciò garantisca la loro elezione in consiglio comunale e poi invece finiscono per conquistare solo una manciata di voti che li lascia stupefatti e delusi. La vita politica altro non può essere che il frutto di una lunghissima vita politica nazionale, che via via conquista visibilità e relazione, oppure, come capita nella maggioranza dei casi, un lungo lavoro porta a porta, come è tipico, ieri e oggi, della militanza nei grandi partiti di massa.
Gli esempi sono innumerevoli. Il più noto è quello delle primarie americane che sono una sorta di ingrandimento delle elezioni locali ma che tutte si reggono, quanti e quali siano i denari che si posseggono, sul lavoro porta a porta dei militanti. Ma vale ciò che dico in merito al cuore della vita politica nazionale. Il cuore, per funzionare, deve battere e non c’è artificio che tenga: se il battito non è naturale, prima o poi, il cuore si spegne. Per questo la prima cosa rilevante in queste elezioni comunali è che sembra essere tornata in scena la politica come partecipazione. Non tanto, infatti, per la lungimiranza dei programmi, quali che siano; ma soprattutto per l’enorme quantità di candidati, sia a sindaco sia a consigliere, e per la grande quantità di liste, tanto nei comuni sopra i 15mila abitanti quanto in quelli sotto quella soglia.
Partecipazione politica, dunque, ma in frammenti. La devertebrazione economica e istituzionale italiana si riflette nell’esplosione delle liste e nell’implosione della partecipazione nazionale: sembra di assistere all’ultima famosa scena di Zabriskie Point di Michlangelo Antonioni dove nel cielo volava, oscillava, cadeva di tutto. Questo è il frutto della proliferazione del partito personale che assomiglia molto a una micro impresa famigliare, personale oppure, come io amo dire più scientificamente, neo-caciquista, seguendo l’insegnamento di quel libro magnifico di Joaquin Costa, scritto nel 1902, Oligarchia y Poder, che magnificamente descriveva la vita politica spagnola di quel tempo: un capo, un cacique, seguito da los fieles, cioè i fedeli, che gli offrono risorse economiche per candidarsi e che in cambio ricevono plusvalore politico, ossia favori, prebende, raccomandazioni, appalti eccetera.
La cosa di sommo interesse è che questa situazione alla Zabriskie Point convive con una situazione più classica, ovvero quello che io definirei dei partiti personalizzati, ossia partiti guidati da un cacique personale che si appoggia su caciques locali e che dà vita a una partecipazione politica autonoma dalla frammentazione e che spesso si confronta polemicamente con essa. E’ il caso del Pd, partito fortemente personalizzato ma anche fortemente radicato, rank and file, ossia con le sue sezioni, le sue correnti e il suo amalgama non riuscito di dalemiana memoria e definizione.
E’ il partito dominante a livello nazionale e che in queste elezioni incontra la sua prima e vera sfida di legittimazione. Ben più potente di quella delle europee che, come tutti sanno, sono elezioni distratte, ossia oltre all’astensionismo consueto, vale la consapevolezza diffusa che tanto sono elezioni che non servono a nulla, essendo in Europa inseritosi un “pilota automatico”.
L’ altro partito personalizzato rilevante anch’esso a dominazione esterna, ma più occulta e serialmente digitalizzato, è il Movimento 5 Stelle, che tuttavia nelle elezioni locali della digitalizzazione, dopo una prima shakerata per scegliere i candidati, li vede misurarsi con i chilometri a piedi delle elezioni locali e un vigore anti-establishment che è commovente, e il più delle volte, molto azzeccato.
Quale che sia il risultato delle elezioni comunali al Nord, al sud o al centro o sulle Piramidi o gli Appennini, il grande sconfitto di queste elezioni, se guardiamo le cose da questa prospettiva teorica, è il Pd che, salvo a Salerno, trasformatasi nella Bologna degli anni cinquanta, grazie a un grande lottatore che è stato vittorioso contro il solo grande potere italiano che oggi conta, ossia la magistratura, in tutte le altre città, o cittadine, esprime risultati deludenti. Dalla sconfitta cocente di Napoli al testa a testa incredibile di Milano (su cui invito a leggere l’intellettualmente potente articolo di Lodovico Festa su formiche.net) alla delegittimazione di Torino. Giù giù alla impietosa sconfitta di Roma, dove il Pd si è aggiudicato il ballottaggio per un soffio, confrontandosi con una vera combattente, degna erede del Movimento Sociale Italiano, che con il Pci era l’unico vero grande partito istituzionalizzato italiano, ossia libero dai miasmi della società civile, pur essendo fortemente radicato in essa in forma autonoma.
Matteo Renzi esce dalle elezioni clamorosamente sconfitto, quali che siano gli esiti dei ballottaggi. Così come lo è clamorosamente Silvio Berlusconi. Parlo di sconfitte politiche, non di numeri o di percentuali. Il primo ha visto sconfitto il suo progetto di Partito della Nazione, ossia la volontà di raggiungere l’autosufficienza dell’Ulivo, senza l’Ulivo. Il secondo di creare una nuova destra, libera dal lepenismo salviniano e dal neofascismo, anche se lo straordinario risultato elettorale di Forza Italia a Milano, che ha superato la Lega di Salvini, è un vero capolavoro di intelligenza politica e di perseveranza, soprattutto grazie a Paolo Romani e a Mariastella Gelmini.
La situazione è quindi assai complicata, per quel che riguarda la macchina dei partiti, e assai simile alla situazione spagnola, esclusi i nazionalismi. Di attrattori centripeti ora ne abbiamo quattro. Il primo è il Pd. Il secondo M5s: questi ultimi sono i veri vincitori politici di queste elezioni comunali, per il buon esito e il buon livello dei candidati. Il terzo è Forza Italia e i suoi alleati di centro destra, e infine il quarto è neolepenismo dei vari Salvini e dei vari neofascismi. Sono forze difficilmente componibili, ossia forze che creano una situazione per la quale pare improbabile qualsivoglia Grosse Koalition.
Se quindi queste elezioni comunali anticipano la silhouette delle elezioni nazionali, quando esse saranno, l’Italicum con il voto di lista sembra assai più congeniale, dal punto di vista della governabilità, con il suo mastodontico premio di maggioranza, di qualsivoglia mastodontico premio alla coalizione, come all’inizio si era vagheggiato.
Insomma, il mio sentire è questo; quale che sia l’esito dei ballottaggi, il futuro politico della nazione, ammesso che un giorno o l’altro si facciano votare gli italiani, mi pare, assai drammaticamente, ben disegnato.