Non è la sfida finale, ma solo l’antipasto. Il referendum, quello sì sarà lo scontro senza esclusione di colpi. Eppure la campagna elettorale in vista dei ballottaggi di domenica prossima si è ormai trasformata in un corpo a corpo durissimo fra Pd e 5 Stelle. Governo contro protesta, vecchio contro nuovo, si fronteggiano due maniere alternative di vedere la politica.
Inevitabile che le strategie siano del tutto opposte. I democratici, partito egemone della politica italiana che governa la stragrande maggioranza dei comuni e delle regioni, non possono che difendersi casa per casa. Una guerra di trincea che rischia di sfibrare un esercito potente (l’unico oggi) e organizzato sul territorio, come quello guidato da Matteo Renzi.
I grillini, al contrario, godono di un largo consenso, ma non hanno radicamento territoriale, anzi sembrano fare di tutto per non averlo, mantenendo ristrettissima la base di coloro che hanno diritto di decidere online le candidature, solo i super fedeli del blog del guru Beppe Grillo. La loro tattica è quindi quella della guerra di movimento, quasi prussiana: concentrare gli sforzi su pochi obiettivi, ma dal fortissimo valore simbolico. Già in partenza non si sono presentati in 1.116 dei 1.368 comuni chiamati a rinnovare sindaco e consiglio comunale, circa l’80% del totale. Poi in alcune realtà hanno corso senza crederci granché. Si pensi a Milano, dove han cambiato candidato in corsa, o a Napoli, dove il loro portabandiera si chiamava Brambilla, era nato a Monza, e non nascondeva la sua fede juventina.
Risultato: 956mila voti, quattro sindaci eletti al primo turno e venti candidati al ballottaggio. Due solamente, però, contano per davvero: Roma, e si sapeva, e la sorpresa Torino. Sin dal principio tutti gli sforzi del Movimento si erano concentrati su Virginia Raggi, considerando la conquista del Campidoglio alla stregua di quell’apriscatole che i 5 Stelle assicuravano nel 2013 di voler usare per scardinare il parlamento. Strada facendo ha preso quota anche Chiara Appendino, che sta mettendo in seria difficoltà Piero Fassino, sindaco uscente, l’usato sicuro, radicatissimo sotto la Mole. E il nervosismo del Pd risulta evidente nei toni durissimi dei confronti tv, ben altra cosa dai toni pacati del duello meneghino Sala-Parisi.
Anche la polemica al calor bianco nella trasmissione di Lucia Annunziata è indice della posta in palio. Giachetti ha già fatto un miracolo, trascinando il Pd a un ballottaggio insperato sino a tre mesi fa, quando “Mafia Capitale” e le malefatte del sindaco Marino sembravano piombo nelle ali di qualunque candidato democratico. Poi la destra ha gettato al vento una vittoria probabile dividendosi, e adesso i democratici sognano il colpaccio. Intorno a Giachetti si sono saldati i poteri forti della città, in primis gli industriali e i costruttori edili. E lui ne ha approfittato, affondando il colpo su un tema delicato per la sua avversaria, la candidatura olimpica per il 2024.
Oggettivamente nel faccia a faccia la Raggi ha denunciato limiti evidenti, ma non è detto che questo confronto possa invertire un’inerzia che è tutta a suo favore, non ultimo l’endorsement di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. A gonfiare le sue vele è il malcontento di una società liquida come quella romana, dove tutti i corpi intermedi sono in profonda crisi e nessuna struttura, dai sindacati ai partiti, alle associazioni, sembra in grado di controllare il consenso.
Dopo il 5 giugno Renzi ha radicalmente cambiato il proprio approccio alle amministrative, anche su pressione dei candidati sindaco del Pd. La scelta di non metterci la faccia è funzionale a derubricare da politico a locale il valore della consultazione, ma di dubbia efficacia. Equivale già in sé a un’ammissione di sconfitta. Per la prima volta il suo tocco magico, da Re Mida della politica italiana, viene messo in discussione.
Sull’asse Roma-Torino (passando per Milano) si gioca la pole position per il gran premio che conta di più, quello di ottobre. Un trittico di sconfitte andrebbe a sommarsi al patatrac di Napoli e imporrebbe al premier segretario di cambiare radicalmente i suoi piani, da qui al referendum, per evitare la vittoria del no.
Hai voglia a giurare che in caso di elezioni politiche oggi il ballottaggio sarebbe fra il Pd e il centrodestra. L’aggregazione moderata non solo è tutta da ricostruire, ma potrebbe entrare in una fase caotica per via della malattia di Silvio Berlusconi. Al contrario, anche senza Casaleggio e anche senza un leader riconosciuto (per ora), l’avversario più temibile per il Pd renziano è costituito proprio dal Movimento 5 Stelle. Con la destra lo scontro è politico, con i grillini — al contrario — si fronteggiano politica e antipolitica. E la prima rischia seriamente di essere travolta. Se si guardano le mappe dei quartieri di Roma, di Torino e di Milano, con il Pd che fa il pieno di voti nei quartieri centrali e borghesi, mentre arranca nelle periferie, a Largo del Nazareno hanno di che preoccuparsi. Ma se, al contrario, il Pd dovesse spuntarla, allora sarà la minoranza interna a dovere temere l’ira funesta del premier segretario.