Questa volta è difficile nascondersi. Per la politica italiana e per quella europea cominciano dieci giorni decisivi. Da un lato, domenica 19 giugno, i ballottaggi in cinque grandi città che possono cambiare l’assetto politico italiano, qualunque cosa si voglia far credere. Poi, il 23 giugno, la partita della Brexit, il referendum su cui si decide se l’Unione Europea resta o no ufficialmente “orfana” della Gran Bretagna, con un’uscita che ha già cominciato a preoccupare i mercati borsistici, a quanto si dice, dall’ultima seduta di venerdì.



Forse c’è una ragione se un personaggio della finanza mondiale, come George Soros, vede tanta incertezza in giro per il mondo da investire soprattutto in lingotti d’oro, bene rifugio estremo nei momenti di crisi, di stagnazione cronica e di svolte imprevedibili in campo politico ed economico.

Andiamo comunque con ordine. Nell’ultima domenica prima del voto in Italia, sono andati in scena i confronti per Roma e per Torino, sotto la direzione di una “vestale”, Lucia Annunziata, della seconda (e altre) repubblica. Un’altra “vestale” che viene da lontano, Maria Latella, si è concentrata sul ministro alle Riforme costituzionali, Maria Elena Boschi, l’intraprendente signorina che viene soprannominata da alcuni maligni la “spietata vispa Teresa” della politica italiana.



Nel suo complesso, lo spettacolo che è andato in scena nell’ultima domenica del voto non ha sconvolto le platee televisive italiane. Per Roma il dibattito è risultato più “vivace”. E in effetti polemiche e frecciate non sono mancate, accompagnati anche da scambi duri e scarsa schermaglia ironica. L’eterea e pentastellata Virginia Raggi ha messo sostanzialmente Roberto Giacchetti alla testa di un “patto del Nazareno all’amatriciana”. Giacchetti è un gentiluomo, ma non si è tirato indietro: “Mafia capitale è nata con Alemanno che oggi appoggia Virginia Raggi”. E poi, la signora, secondo il candidato del centrosinistra, è inadeguata, insomma non è all’altezza della situazione.



Certo che un dibattito di questo tipo, su una capitale che ha un debito mostruoso, dove regnano topi, immondizia e disfunzioni di ogni tipo, deve difficilmente avere invogliato al voto e convinto gli incerti. Più che un confronto politico è sembrato un derby.

Sostanzialmente migliore il confronto tra Piero Fassino, un vecchio signore che capisce di politica, e Chiara Appendino, la nuova stella pentastellata di Torino. Ma nulla di nuovo sotto il sole. Per Chiara Appendino forse c’è una “narrazione” (parola ormai di grande moda, quasi come “location”) di Fassino in cui una parte di Torino non si ritrova. Ma per questo basta guardare il risultato del voto!

Poi un pro (Appendino) e un contro (Fassino) sul reddito di cittadinanza. Infine ancora polemiche, “Il programma dei 5 Stelle è un castello dei no”, dice Fassino. In più, l’appoggio di tanti esponenti di destra fa della lista di Chiara Appendino una sorta di contenitore dove “si mette insieme il diavolo e l’acqua santa”. Si riparla di Tav, di povertà. Non si scende ai livelli del “romano” moderno, ma si resta sul nervoso, che investe persino di sponda il ministro Boschi. 

La Boschi invece era in pista dalla Latella per dare un dispiacere al fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari. Dice il ministro: “Non cambieremo l’Italicum, mi spiace per Scalfari”. Sul lanciafiamme evocato in una trasmissione televisiva dal “moderato” Renzi per usarlo all’interno del partito, Maria Elena si dimostra donna comprensiva: “Matteo Renzi ha uno stile molto immediato, che rende bene l’immagine di quello che lui vuole fare nel Pd. Io condivido quello che vuole fare, vuole portare quel rinnovamento che probabilmente i nostri iscritti, i cittadini non hanno avvertito in questa tornata elettorale”. In pratica, sarebbero quasi dei deficienti che non capiscono. E dopo questo servizio reso ai possibili elettori, ecco un’altra perla: “Difficile dare una valenza nazionale a questo voto”. Forse, la signorina Boschi non si è accorta che si vota a Roma, Milano, Torino, Napoli, Bologna.

In definitiva, la domenica prima del voto è stata una routine di noiose ripetizioni e di visibili paure di perdere: con una menzogna di fondo, in quasi tutti i protagonisti dei dibattiti-confronto: non ammettere che questo banco di prova prima del referendum assuma sempre di più una valenza nazionale dopo due anni e mezzo di governo Renzi, dopo una serie di promesse mancate, dopo una caterva di dati che spiegano abbondantemente che la ripartenza italiana è ancora un’aspirazione, ma, se tutto va bene, è destinata a una lenta ripresa non a uno scatto improvviso. Quindi, lo si voglia o no, questo voto il suo peso nazionale, il suo test sulle aspettative dei cittadini italiani c’è e caratterizzerà le strategie dei partiti nei mesi prima del referendum di ottobre, quello del referendum costituzionale.

Circola in questi giorni una strana voce. Al contrario che nella prima tornata delle amministrative, i ministri e lo stesso Renzi (che giovedì e venerdì sarà in visita in Russia) non parteciperanno alla campagna dei ballottaggi. Bisognerebbe chiedersi il perché e quale ragione è all’origine di questa scelta. Forse, molti ritengono che il modo migliore per lasciare i ballottaggi fuori dalla “valenza nazionale” sia proprio quello di disertarli.

In sintesi, tra una settimana sapremo che cosa emerge dal voto delle amministrative italiane. E si potranno trarre indicazioni. Ma un paio di giorni dopo avremo un’indicazione che riguarderà ugualmente anche l’Italia. Sarà la volta del referendum sulla Brexit. Anche in questo caso, qualcuno potrebbe dire: che cosa c’entra tutto questo con l’Italia?

Ammettiamo, sperando che questo non avvenga, che la Gran Bretagna voti per l’uscita e influenzi magari (come sostiene il ministro tedesco Wolfgang Schauble) l’uscita di altri Paesi, che cosa dovrebbe pensare un italiano dei sacrifici e delle politiche spesso subite in nome dell’Europa unita? Dovremmo convenire che è stato tutto uno scherzo quello che è avvenuto in questi ultimi venti anni? 

In realtà, bisognerebbe convenire che ormai dopo questi anni di crisi è arrivato un momento di chiarificazione che sembra necessario sia a livello nazionale che a livello internazionale. Con l’accortezza di ammettere che una sconfitta delle cosiddette forze anti-sistema o anti-politica, dovrebbe una volta per tutte convincere i leader del sistema a essere più incisivi e più determinati nelle scelte politiche. E non ci si può accontentare di vittorie solo di misura.