Oramai rischia di costituire la costante di una strategia tanto (apparentemente) incomprensibile, quanto (costituzionalmente) pericolosa.
Ogni volta che il ministro per le riforme istituzionali, Maria Elena Boschi, ha modo di parlare pubblicamente del referendum costituzionale, finisce per incorrere in una duplice evenienza: non solamente alza il livello dello scontro politico, personalizzando ulteriormente la contesa referendaria; bensì, più ancora, ricorre ad argomentazioni tanto provocatorie ed eclatanti, quanto rischiose sul piano politico-costituzionale. Eppure, era stato proprio l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sul Corsera del 6 gennaio scorso a raccomandare una maggiore prudenza, al fine di evitare la china plebiscitaria invece oramai imperante (“mi auguro che le opposte parti politiche si confrontino sul referendum nella sua oggettività. Cioè pronunciandosi sul merito della riforma, della sua necessità […], e non facendone materia di scontri politici personalizzati”).
E invece, quelle che prima potevano apparire delle semplici intemperanze verbali provocate dall’accesa politicità del dibattito, una volta messe in sequenza sembrano obbedire a un’unica strategia comunicativa. Del resto, vale al riguardo la lezione di Agatha Christie: “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”. E qui, per l’appunto, gli indizi sono tre.
Il primo indizio concerne la vicenda di CasaPound. Piuttosto che chiarire le ragioni dell’accusa rivolta in modo sferzante verso gli oppositori (“Sappiamo che parte della sinistra non voterà le riforme costituzionali e si porranno sullo stesso piano di CasaPound e noi con CasaPound non votiamo”), il ministro Boschi ha rincarato la dose nel corso di una direzione del Partito democratico: “Io ho più volte sentito equiparare chi vota sì alle riforme a Verdini. Io mi sono limitata a constatare che chi voterà no lo farà assieme a CasaPound. Non è una comparazione ma un dato di fatto: chi vota no voterà come CasaPound”. Equiparando così in un unico indistinto forze politiche differenti per tradizione e cultura, prendendo a pretesto la comune contrarietà verso il testo di riforma promosso dal Governo.
Il secondo indizio concerne la vicenda dei “partigiani veri”. Una decina di giorni dopo la polemica su CasaPound, volendo chiarire le ragioni di quella discussa dichiarazione, il ministro Boschi ha finito per aprire un nuovo fronte di polemica con l’Associazione nazionale partigiani. “L’Anpi come direttivo nazionale ha preso una linea, poi ci sono molti partigiani, quelli veri, e non quelli venuti delle generazioni successive, che voteranno sì alla riforma”. E così, in piena celebrazione dei 70 anni della Repubblica e dell’amnistia politica di Togliatti a favore della riunificazione degli italiani, una tale dichiarazione ha avuto l’effetto di distinguere i partigiani fra “veri” e finti a seconda dell’adesione degli stessi alle richieste del Governo.
E tuttavia, è il terzo indizio a destare maggiore preoccupazione sul piano politico-istituzionale. Intervistata domenica scorsa da Maria Latella su SkyTg 24 a proposito del proprio futuro nell’eventualità di una sconfitta referendaria, il ministro Boschi ha risposto: “Invito a chiedere a Di Maio e a Salvini cosa faranno se vince il ‘sì’ al referendum costituzionale. Scommetto che inventeranno un sacco di scuse per dire che loro non se ne vanno“.
Una tale richiesta costituisce una forzatura che accelera ulteriormente la spirale plebiscitaria della consultazione in corso, ma ancor più stupisce che i commentatori non ne abbiano dato atto. In realtà, già le preannunciate dimissioni del Governo in caso di esito negativo del referendum avevano rappresentato un’indebita personalizzazione della consultazione, al fine di rafforzare i consensi referendari verso la persona del presidente del Consiglio; Renzi, di conseguenza, aveva cercato in tutti i modi di ridimensionare e giustificare il tutto, ricorrendo a ragioni di responsabilità personale e di dignità dell’impegno politico. Per contro, le parole di Boschi segnano una radicalizzazione senza possibilità di ritorno: non è più il Governo che per una presunta forma di responsabilità politica preannuncia le proprie dimissioni in caso di sconfitta referendaria; al contrario, è il Governo che alza la posta della contesa, sino a sfidare i leader delle minoranze a dimettersi nel caso di una vittoria governativa.
In altri termini, l’ultima dichiarazione del ministro per le riforme non sottende solamente un’inarrestabile evoluzione plebiscitaria della contesa referendaria a dispetto delle prudenti raccomandazioni del presidente Napolitano, tale da aprire la via a uno scontro senza limiti fra Governo e opposizioni. Più ancora, essa svela sin d’ora la pretesa del Governo, in caso di vittoria referendaria, di avere competenza non solo nella nomina dei prossimi parlamentari (ai sensi del combinato disposto fra Italicum e riforma), bensì anche nella designazione dei leader delle minoranze.
E così, la trasformazione del referendum costituzionale in un giudizio di Dio è tale da assicurare i prossimi passaggi di una riforma highlander: ne rimarrà soltanto uno e il vincitore avrà titolo di vita e di morte (politica e civile) anche sui propri avversari.