Politologi e sociologi azzeccarono, forse per la prima volta nella loro vita, la lenta ascesa della Lega Nord , che era appena stata promossa da Lega Lombarda, alla fine degli anni Ottanta italiani, quando il “muro di Berlino” cadde in testa anche ai comunisti e ai democristiani italiani. Il Nord italiano “bianco” (Bergamo fu l’unica città che aveva bocciato il divorzio, al referendum, per un voto), quasi liberato dall’incubo del socialismo reale, e con Ciriaco De Mita che era segretario della Dc, scoprì autonomismo e federalismo.
La classe operaia italiana, senza più riferimenti a Est, cominciò a votare per i leghisti, abbandonando il Pci che tentava di reinventarsi qualche cosa, ma con scarsa fantasia e fortuna.
Al tutto si aggiunse: la “grande operazione etica” di Tangentopoli (Khomeini a Milano); una sacrosanta “questione settentrionale”, agitata però con arguzia da un “Anonimo lombardo” espressione di “poteri forti”, pronti a irrompere direttamente al governo del Paese; in più qualche spinta transatlantica e di varia origine “multinazionale”. Nessun complotto, ma solo geo-strategia basata sullo sviluppo commerciale, industriale e soprattutto finanziario, che avrebbe compromesso il ruolo del Paese, che era diventato la quarta o quinta potenza industriale del mondo. Ma pochi se ne preoccupavano allora. Basta leggere un grande libro di Marco Borsa: “Capitani di sventura”.
Umberto Bossi, che in quel bailamme era uno dei pochi che capiva di politica, si buttò a capofitto nell’avventura, forse sperando di districarsi in quel ginepraio e agganciando il Nord a un disegno di prestigio europeo. Divenne solo una sorta di capopopolo, che cavalcò la prima ondata anti-politica italiana.
Dunque, si diceva di sociologi e politologi che, come fanno oggi per il Movimento 5 Stelle, prevedevano un lento ma inesorabile allargamento della Lega. Poiché i “lumbard” venivano dalle montagne, i grandi “intellettuali” ipotizzavano una discesa dai monti, alle Prealpi, alle colline, alla zona dei laghi, fino alla pianura. Geniali e originali!
Mentre la vecchia classe politica si dibatteva tra avvocati, pm, tribunali, galere e avvisi di garanzia, i “lumbard” sbarcarono senza colpo ferire a Milano, a Palazzo Marino, il 20 giugno 1993, con un ex socialista che, nato alla Spezia, emigrato con la famiglia in Belgio, cresciuto nelle prime istituzioni europee, poi approdato alla Regione Lombardia, quindi passato in altre realtà industriali, venne infine arruolato da Umberto Bossi.
L’elezione di Marco Formentini non fu affatto tormentata, perché di fronte aveva Nando Dalla Chiesa, rappresentante della nuova sinistra, persona perbene, figlio del grande generale, ma piuttosto utopista nella visione di una Milano che riscopriva “latterie e osterie”.
Insediatosi a Palazzo Marino, Formentini, che era in fondo un moderato e interpretava il popolo “moderato”, fu quasi colto in contropiede, cullandosi tra la tradizione di una grande città, il suo benessere e i problemi del futuro, con tanti protagonisti della società civile che suggerivano e indicavano.
In realtà, quasi terrorizzato da quello che avveniva al Palazzo di Giustizia, Formentini cercava soprattutto di limitare le frequentazioni e i contatti di qualsiasi genere e di mettere in cantiere alcune iniziative.
In fondo, il nuovo sindaco, ancorché “ufficialmente rivoluzionario”, poteva restare immobile all’interno del municipio di una città che, alla fine degli anni Ottanta, era ancora tra le “cinque più ricche del mondo” e godeva di un’amministrazione ultra-secolare che aveva sempre funzionato.
Persino dopo il colpo di Stato di Benito Mussolini e l’avvento del fascismo, i Federali di Milano si erano ben guardati dal toccare la macchina del Comune di Milano e rispettavano, tacitamente, ancora le indicazioni di massima dei primi sindaci socialisti come Emilio Caldara e Angelo Filippetti.
Tuttavia Milano non è una città che si può fermare. Anche nei periodi di grande ricchezza si muove sempre, coniugando tradizione e innovazione. Palazzo Marino aveva di fronte, ai tempi di Formentini, non solo la Scala, ma il retro del palcoscenico del grande teatro che confina con una delle poche banche italiane di sistema, Mediobanca. Sulla destra c’era la grande Banca Commerciale, puntata ormai dal nuovo “re” del sistema bancario nazionale, Nane Bazoli. E poco distante c’era sempre la Cassa di Risparmio più ricca del mondo, la Cariplo. Non solo realtà finanziarie, ma espressione di una realtà imprenditoriale che non poteva mai fermarsi e che chiedeva sempre al municipio il giusto supporto o la sinergia migliore per muoversi. Cercava e indicava suggerimenti, senza ottenere nulla da un sindaco “muto”, che aveva solo paura di sporcarsi le mani.
Formentini preferiva barricarsi nel suo studio e non “contaminarsi” con contatti di qualsiasi genere. In questo modo, l’innovazione “rivoluzionaria” del movimento nuovo, di quella che oggi di traduce con anti-politica, fu l’immobilismo istituzionale. C’è un fatto a suo modo clamoroso. Milano, sin dai tempi di Emilio Caldara (1914), aveva un disegno ambizioso: quello di una rete metropolitana a vasto raggio, che avrebbe collegato diverse città lombarde. Lo studio è ancora in qualche archivio del Comune.
Poi Milano dovette aspettare la fine degli anni Cinquanta per la sua MM, ma Formentini fece “di più”: decise di bloccare la realizzazione di altre linee metropolitane per sostituirle con la metrotranvia, ovvero linee tranviarie di superficie con alcuni tratti protetti. Benché considerato inadeguato, il progetto verrà poi realizzato dal successore Gabriele Albertini, anche per non perdere i fondi già stanziati. Chissà perché quella scelta di Formentini ci è venuta in mente, quando Virginia Raggi, candidata sindaco a Roma, ha peoposto la famosa funivia. Vedremo.
Ma ritornando a Formentini, quella scelta antimetropolitana fu una delle performance che assicurarono al sindaco leghista l’insuccesso più clamoroso che si potesse immaginare nel 1997. Marco Formentini, da sindaco uscente, non raggiunse neppure il ballottaggio. E poi, in una sorte di disillusione complessiva, se ne andò via anche dalla Lega Nord.
Che significato può avere la parabola leghista al Nord in questa nuova Italia che si presenta alle amministrative di domenica ? Definire l’anti-politica in una situazione come quella che si sta vivendo in questo periodo nella democrazia italiana, e in fondo in tutta quella del mondo occidentale, non è affatto una cosa semplice. Tuttavia questa tendenza di natura manichea, di rappresentare completamente il “nuovo” rispetto a una realtà tutta da condannare e da cancellare, è il tratto più significativo che si può notare a distanza di venticinque anni tra la Lega Nord dei primi anni Novanta e il M5S che sta caratterizzando la nuova stagione politica.
Alla fine, la politica, anche nell’amministrazione di una città , di una grande città, resta sempre il metodo guida. L’arte del possibile, la necessità di un compromesso onorevole e funzionale è l’obiettivo migliore. In sintesi, il canovaccio delle “scelte etiche”, l’eccessivo zelo, con la pretesa di rappresentare la “purezza” diventano spesso un boomerang, che produce contraccolpi. Se questo discorso ha avuto un banco di prova a Milano, forse a maggior ragione vale per Roma, nella situazione in cui si trova la capitale dopo anni di finanza allegra e di amministrazione senza alcuna senso logico.
Il sempiterno ritorno e richiamo all’onestà, all’etica, alla pulizia ha qualche cosa di non convincente. Quasi una “excusatio non petita”. Con tutta probabilità l’anti-politica di Formentini è stata una “tragedia” per Milano e anche per il motore d’Italia in un periodo cruciale degli anni Novanta. Il richiamo agli stessi “valori” fatto dalla Raggi può trasformarsi in una farsa, destinata ad affogare tra debiti, topi, immondizia, buchi nelle strade in un’Italia che conta sempre meno.
Del resto, dopo tanti anni di predicazione contro la politica, bisognerà pur goderseli i “frutti” di questa anti-politica, di questa “nobile” campagna anti-casta.