In attesa di conoscere l’esito dei ballottaggi si possono già trarre alcune considerazioni relative alle conseguenze politiche sulla scena nazionale di queste elezioni amministrative. Matteo Renzi ha da tempo messo le mani avanti avvertendo che è un “voto locale” e di certo il governo non è a rischio, ma si tratta di un’elezione che riguarda le cinque principali aree metropolitane d’Italia; e infatti il risultato della tornata amministrativa precedente non mancò di avere una lettura politica nazionale.



Il primo dato è che il governo non ha la maggioranza nel paese. Naturalmente da Palazzo Chigi si replica che con il maggioritario — e in particolare con l’Italicum — si governa benissimo con un consenso minoritario. Ci sono comunque due motivi di riflessione politica. Il primo è che i transfughi del centro-destra non sono riusciti a radicarsi nel territorio. Un’alternativa a Berlusconi si è delineata più alla sua destra con Salvini e Meloni. Alfano inchiodato sulla politica dell’accoglienza dei clandestini non destabilizza l’elettorato di centro-destra e i volontari di Verdini non hanno tifosi fuori dalle aule parlamentari. Questo significa che governare e legiferare — anche su materia istituzionale e di diritti civili — a colpi di fiducia basandosi su senatori che rappresentano solo se stessi sarà meno facile e meno popolare.



Il secondo dato è che il Pd al 41 per cento non esiste più. E’ vero che in queste elezioni Renzi non ci “ha messo la faccia”, è però significativo che in questi quindici giorni la sua presenza non è stata molto richiesta soprattutto là dove il Pd può riuscire a vincere e cioè Milano, Torino e Bologna. Anche alle europee Renzi non era candidato, ma il risultato ebbe un’immediata lettura politica con rilevanti conseguenze istituzionali e cioè legittimò appunto l’uso dei transfughi (che infatti aumentarono fino a diventare il gruppo maggioritario in Parlamento) ed è sulla base di quel risultato che Renzi ha immaginato e fatto approvare la riforma costituzionale e la legge elettorale.



Il successo delle europee di due anni fa è invecchiato di fronte al fatto che il Pd sulla scena europea non si è sentito: è aumentato il peso della Germania e l’Italia è perennemente sotto esame dello “zero virgola”. In sostanza quel 41 per cento non ha determinato alcun grande cambiamento a Bruxelles e anzi la situazione è peggiorata. Certamente la responsabilità della crisi europea non è solo di Renzi, ma anche il nostro premier ha qualche responsabilità. Due anni fa la Brexit era considerata un’ipotesi che nessuno prendeva sul serio.  

All’indomani delle europee David Cameron però, di fronte al successo dei movimenti antieuropeisti, aveva bloccato la nomina di Juncker chiedendo un chiarimento pregiudiziale per un cambio di rotta. Matteo Renzi lo affiancò nella prima riunione, ma già il giorno dopo corse a rassicurare la Merkel e mollò Cameron in cambio della Mogherini. Non fu il solo: anche Hollande si preoccupò solo di piazzare il suo Moscovici. Ora si cade dalle nuvole e ci si stupisce di essere sull’orlo della Brexit. Un segno di vita positivo sulla scena internazionale Renzi lo ha invece dato a Mosca dissociandosi dalla politica della Ue (e di Obama) contro Putin (e a favore di Erdogan).

Ma la principale responsabilità di Renzi nel voto non positivo per il Pd viene dal fatto che, come segretario del partito, lo ha congelato facendo vivere solo l’immagine del governo. C’era il tema della Città metropolitana che — da Napoli a Torino, da Bologna a Milano — i prossimi sindaci dovranno istituire. Il Pd, mentre il governo ha partiti diversamente schierati a livello locale, poteva lanciare una piattaforma nazionale di concrete innovazioni nella vita dei cittadini con, ad esempio, un Piano generale per le periferie. Il Pd ha invece affrontato queste elezioni amministrative in ordine sparso e da Roma a Torino sulla difensiva. Anche se i sondaggisti erano tutti molto favorevoli a Renzi, un campanello d’allarme era però costituito dal fatto che sul piano delle priorità, in tutte le rilevazioni, gli elettori indicavano non ambiente, cultura e diritti civili, ma sicurezza, immigrati e occupazione (nel senso che la crisi economica non era ritenuta in fase di superamento). 

Le polemiche che si apriranno nel Pd non sembrano comunque destinate a destabilizzare il governo, dato che la nomenklatura dell’ex Pci non è in grado di offrire un’alternativa. Rimane però il fatto che lo scenario che ha segnato la nascita della nuova legge elettorale è diventato di cartapesta. Con il Pd che non è più al 41 per cento e al cui interno si discute con i lanciafiamme, le prossime elezioni politiche con l’Italicum rischiano di apparire agli occhi di un certo numero di italiani, anche di sinistra, una sorta di “roulette russa”. Si apre il varco a preoccupazioni e fibrillazioni che potrebbero influire negativamente sul referendum costituzionale.