Non è possibile concludere una transizione costituzionale né in via plebiscitaria, impiegando il referendum per “asfaltare” le ragioni del “nemico” politico (secondo la terminologia mediatica purtroppo vigente), né tantomeno in via giudiziaria, demandando all’autorità giudiziaria l’indebito compito di “eliminare” dalla contesa i rappresentanti di una posizione ostile. Perché una transizione si concluda e un cambio di regime si renda effettivo e democratico, occorre che le parti coinvolte riconoscano reciprocamente la rispettiva legittimità e meritevolezza. Proprio perché la Costituzione rappresenta il “vestito” di un popolo, essa non può essere sostitutiva del relativo corpo sociale, né può risparmiare a quest’ultimo quelle fatiche politiche ed esistenziali che sono essenziali a conseguire consistenza identitaria e coesione sociale.



In altri termini, così come non può esistere una comunità umana senza la disponibilità di ciascuno al sacrificio di adattarsi alle necessità altrui, altrettanto può dirsi per il fenomeno costituzionale. Anche in questo caso è essenziale la dimensione del sacrificio personale, sociale o politico, al fine di assicurare aderenza sociale e funzionalità politica al nuovo sistema; anche in questo caso la dinamicità del sistema è affidata al “fattore umano” e, nella specie, alla disponibilità di una parte a rinunciare a talune delle proprie legittime pretese, pur di consentire la realizzabilità di quelle altrui. Ecco perché una Costituzione non si può occupare dei presupposti etici di una comunità (che, infatti, restano presupposti e non posti); ed ecco perché le regole fondamentali devono essere scritte da tutti e per tutti.



E’ questa, in definitiva, l’attualità della lezione proveniente dal referendum del 1946 sulla forma istituzionale da riservare allo Stato italiano, se monarchica o repubblicana. Non per nulla l’espletamento della consultazione si svolse in contemporanea con l’elezione dei componenti dell’Assemblea Costituente, a significare l’essenzialità di entrambe le votazioni alla costruzione della nuova “casa comune” (secondo la nota metafora di Giorgio La Pira). Ed è in tale contesto che vanno collocate due delle principali decisioni politico-istituzionali che sacrificarono parte delle ragioni dei relativi artefici, aprendo la via alla successiva svolta costituzionale.



La prima decisione riguarda la scelta del Re, Umberto II, di partire per l’esilio in modo non dovuto e precipitoso. Si tratta di una pagina poco ricordata, probabilmente perché troppo a ridosso degli eventi nefasti provocati dal regime fascista con la responsabilità di Casa Savoia. Eppure, a rileggere tale pagina con gli occhi distaccati della storia, non può non ricavarsene una lezione di merito.

L’indagine storica ormai ha acclarato le conseguenze politico-istituzionali provocate dalla decisione della Corte di Cassazione, in violazione di quanto disposto dalla normativa, di non proclamare i risultati definitivi del referendum istituzionale (si veda per tutti Livio Paladin, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana). All’esito dello spoglio referendario, anziché proclamare la vittoria della Repubblica, la Suprema Corte si limitò a dare conto dei voti attribuiti alle due opzioni (Repubblica, 12.672.767; Monarchia, 10.688.905), rinviando “ad altra udienza il giudizio definitivo“. 

Il Governo si trovò così a dover fronteggiare la duplice e imprevista evenienza sia di un ricorso monarchico provocato dall’anomalia della procedura adottata, sia di un colpo di mano da parte dei militari fedeli al Re. Di qui la frettolosa e dubbia decisione governativa di affidare a De Gasperi l’esercizio delle funzioni di Capo provvisorio dello Stato; e, inoltre, la conseguente decisione del Re di partire al solo fine di “non provocare spargimento di sangue“, come egli stesso dichiarò nel Proclama di saluto agli italiani. La presentazione di un ricorso, infatti, diradando ulteriormente i tempi di proclamazione della parte vincitrice, avrebbe esposto il Paese al pericolo di una nuova guerra civile, a motivo della netta spaccatura della popolazione fra monarchici e repubblicani. 

Per contro, non sembrano essere state chiarite con sufficienza le ragioni che indussero la Cassazione a posticipare la proclamazione della parte vincitrice, che fu ufficializzata solamente dopo la partenza del Re. Una ricostruzione che pone nuovi interrogativi, è quella offerta anni addietro da Massimo Caprara, all’epoca segretario del ministro guardasigilli Palmiro Togliatti (cfr. “Nuova Storia Contemporanea”, 6/2002). La mancata proclamazione della Repubblica — a suo dire — sarebbe derivata da un’apposita determinazione di Togliatti. Mentre ancora era in corso lo spoglio dei voti e i risultati facevano presagire la vittoria della Monarchia, il guardasigilli fece recapitare dallo stesso Caprara al presidente della Cassazione la lettera recante una tale determinazione, ottenendo l’assenso del destinatario. 

Spetta all’indagine storica, ovviamente, chiarire le ragioni di una tale (quantomeno dubbia) ingiunzione. E, tuttavia, non possono sfuggire le relative conseguenze storiche. Una volta spostato “ad altra udienza” il momento della proclamazione della parte vincitrice, la Cassazione poté provvedere a una più ponderata valutazione delle questioni elettorali variamente eccepite; al contempo, fu certamente più agile forzare la mano al Re, costringendolo a rinunciare alla via giudiziaria pur di “non provocare spargimento di sangue“.

Una seconda decisione ugualmente espressiva del sacrificio delle parti lese, a non far valere la via giudiziaria a tutela delle proprie ragioni, è quella riguardante l’amnistia proposta dallo stesso ministro guardasigilli Palmiro Togliatti pochi giorni dopo la partenza del Re. Questa fu concessa per tutti i delitti politici commessi dopo l’8 settembre 1943 e nel corso della guerra di liberazione tanto dai partigiani quanto dai fascisti della Repubblica di Salò; sfuggirono alla stessa solamente “i fatti di stragi“, gli omicidi e “le sevizie particolarmente efferate” (quasi che — come ironizzò Andreotti — possano esistere sevizie non efferate). 

Certamente si trattò di una decisione sofferta e impopolare; e anzi, fu talmente avvertita come un’indebita sottrazione di giustizia, da originare quella “memoria divisa” che per decenni ha segnato la storia patria (si leggano le vicende giudiziarie raccontate da Cecilia Nubola in Fasciste di Salò, a proposito delle delazioni, sevizie e torture poste in essere da decine di donne collaborazioniste della Rsi anche nei confronti di parenti e amici ebrei). 

Eppure, nonostante le comprensibili contestazioni, la decisione di esentare gli autori di reati gravissimi dalla relativa responsabilità penale fu decisiva per l’avvio della Repubblica. Impedendo la prosecuzione per via giudiziaria della passata guerra civile, detta decisione servì a chiudere i conti con il passato e a porre le condizioni per una futura e pacifica convivenza fra i liberatori e gli alleati degli occupanti.

Dalle due decisioni politiche richiamate deriva un’unica conclusione. Le crisi di regime non si superano imponendo nuove regole dall’alto, ovvero denigrando e sbeffeggiando le minoranze dissenzienti. Le transizioni costituzionali, piuttosto, si chiudono recuperando nel popolo le ragioni di coesione e di speranza per il futuro. Questa è l’attualità della lezione promanante dal referendum istituzionale del ’46. Ma perché ciò accada, occorre la disponibilità al sacrificio.

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