Da torinese che vive a Roma da vent’anni, in questa campagna elettorale mi sono chiesta più volte se non avrebbero potuto darci, come sindaco capitolino, chiunque fosse stato scartato a Torino o Milano: l’opzione mi sarebbe parsa comunque migliore di quella che ci toccava nelle urne. E’ un pregiudizio, lo so: ma basta un giro per le grandi città del nord per capire la differenza di immagine, e pour cause di gestione. Forse. Non sono solita quando salgo farmi un giretto nelle periferie di Torino e Milano, che sono tristi e degradate e diserte tanto quanto quelle romane. Ancora più brutte, che almeno a Roma supplisce il cielo, e quel verde che s’inframmezza pure tra i suburbi. 



Dunque, i salotti buoni non ingannino: almeno per Torino, chi ha votato contro un potere consolidato da tempi immemori ha votato per esasperazione, per stanchezza di indifferenza e trascuratezza. Torino è una città europea: segnalata dal New York Times quest’anno tra le 52 magnifiche al mondo da visitare, unica tra le italiane. Bei musei, piazze, déhors, iniziative culturali a go go, l’immondizia non disturba la vista e l’olfatto, frotte di visitatori ammirano le luci d’artista natalizie come le manifestazioni internazionali, dal Salone del gusto a quello del libro. Una città rinata nonostante la Fiat, si racconta. 



Ma basta uscire dal quadrato romano per vivere un’altra storia: immigrazione selvaggia e abbandonata, al di là delle chiacchiere politically correct sull’accoglienza, e rovesciata sulle spalle di cittadini indigenti, che faticano a tirare avanti con le pensioni minime, e la disoccupazione giovanile che sfiora il 40%. Desolazione, sfruttata dall’assalto di centri sociali lasciati liberi di disturbare, ché la sinistra non usa i sistemi forti conto i compagni che sbagliano. Il sindaco (ex) si è giocato mezza città di cui non aveva forse contezza, quando nel faccia a faccia con la giovane pentastellata ha dichiarato di soprassalto che certa povertà nella sua città non c’è. Non quella degli slums di Benares o delle favelas di Rio, ma nemmeno lo status della Crocetta o della precollina, dove abitano i più raffinati sostenitori di quello che simpaticamente chiamano “filùra“, fessura, per la sua esile stazza. Una brava persona, un uomo di ideali e passioni, che non sono le mie, ma di cui si riconosce unanimemente l’apertura, il rispetto, e l’amore sincero alla terra in cui è nato. Ma pur sempre un uomo che ha avuto le sue occasioni, che ha governato tanto e dappertutto, che rappresenta una realtà politica che non sa più parlare alla gente, manco la sua. 



Forse cambiare non è un dramma, come lamentano in gramaglie i giri intellettual chic che paventano orde di grillini a macchiare il ritratto della città ritrosa elegante e bella. Andatelo a dire alla Falchera, alle Vallette o intorno a quella casbah che è Porta Palazzo.  

Fassino nelle periferie, in questa campagna elettorale che via via è salita di intensità e preoccupazioni, girava tra battute sarcastiche e amare dei cittadini: “Sindaco, qual buon vento…”. Perché non s’era visto mai, e parlare di riqualificazione delle periferie frequentando solo il Circolo dei Lettori sembra un po’ poco.

E sta Appendino, poi, non è una fanatica sciamannata sbucata da qualche corteo no Tav: è una di noi, hanno notato in tanti, giovane, che non guasta, mamma, che è pure meglio, colta e brillante, con ottimi studi e ottima famiglia e un curriculum che l’avrebbe fatta preferire in molte università o aziende straniere. Che sarà mai, farla provare? In più, pare simpatica, calma olimpica, sorrisi ampi, nessuna violenza verbale. Facciamola provare, si son detti i bougia nèn torinesi, che torinesi non son più se non in minima parte. Poi, naturalmente, c’è il dispetto di gran parte del centrodestra: c’è da stupirsi, dopo decenni di monocolore rosso o rosé? Esclusi per colpe loro e pasticci dalla competizione, hanno votato non contro Fassino, ma contro Renzi, checché ne dica il segretario e premier. Che s’aspettavano? 

La domanda ora è sul domani. La Appendino è forse brava, ma non basta. Con chi farà squadra? Boh. Saranno colleghi e amici in gamba, oppure no. Saranno deideologizzati, attenti solo al bene comune della loro città. Oppure no. Da alcune dichiarazioni di probabili spalle politiche della neosindaco raccolte ieri in piazza qualche dubbio sorge. Lo slogan No Tav è un po’ poco. Il grido “onestà” mal s’addice a un’amministrazione che disonesta non è stata. La “decrescita felice” può portarci allegramente a coltivare la vite in campagna, ma della città che ne facciamo? Una città deve crescere, e dire tanti no non assicura il futuro. Ma ripeto, lasciamoci la facoltà umanissima e speranzosa dello stupore. Può darsi che faccia bene. Farà più fatica della Raggi a Roma, dove non c’è gara possibile coi predecessori. E se così non sarà, ci faremo un’idea su chi votare alle prossime politiche, che prima o poi arriveranno, no?