Il Pd ha perso perché è stato votato prevalentemente da chi vive nei quartieri benestanti delle città, mentre chi vive nei quartieri disagiati ha scelto M5s. E’ un cambiamento di collocazione sociale. “Questo Pd è diventato il partito dei ceti che non hanno bisogno della politica per vivere”. E’ l’analisi di Luciano Violante, già presidente della Camera dei Deputati e membro di spicco dell’ex Pci. Su sette capoluoghi di Regione, il centrosinistra ha vinto soltanto a Milano con Giuseppe Sala, a Bologna con Virgilio Merola e a Cagliari con Massimo Zedda, con quest’ultimo che però è iscritto a Sel. A Napoli il Pd non è arrivato nemmeno al ballottaggio, a Roma e Torino ha vinto M5s e a Trieste il centrodestra.



Violante, perché il Pd ha perso le elezioni comunali?

Il senso di questo risultato è nazionale, perché il fenomeno è emerso in tutta Italia. Non è quindi un processo che riguarda soltanto Torino o Roma, anche perché nel capoluogo del Piemonte il Pd aveva amministrato bene, al contrario della Capitale. Tra i fattori che hanno giocato c’è in primo luogo una tendenza al conflitto nei confronti del governo nazionale. Questo è normale quando si arriva a metà mandato, avviene anche negli Stati Uniti quando ci sono le elezioni di Mid-Term. Inoltre non dappertutto i candidati erano sufficientemente autorevoli e riconosciuti.



Basta questo per spiegare la débacle del Pd?

Ovviamente no, va fatta una riflessione seria sul rapporto tra il Pd e la società italiana. Il punto debole del partito è il fatto che non c’è nella società e che non si preoccupa di organizzarla.

Che cosa deve rivedere Renzi nel suo partito?

Il primo requisito è che ci sia un partito, perché oggi come oggi il Pd non ha una direzione politica in quanto Renzi non è riuscito a imprimergliela. E soprattutto il fatto che il premier-segretario rivesta direttamente e in prima persona ogni tipo di responsabilità fa sì che poi nessuno si curi del governo reale del partito.



Da dove passa la soluzione?

Leggi che si intende proporre di chiamare in segreteria personalità che già svolgono compiti importanti come ministro o presidente di Regione. Chi ha avuto questa idea ha però perso di vista il punto di fondo: occorre avere in segreteria personalità importanti che poi vanno in periferia, e non chiamare nomi dalla periferia al centro.

In che senso oggi il Pd non c’è più?

Nel senso che non c’è più il partito in quanto comunità politica. Esiste il complesso di persone di buona volontà, quando ce l’hanno, che cercano di riunirsi e di incontrarsi. Ma non c’è il partito come comunità sul territorio che parla con i cittadini, ne conosce i problemi, interloquisce con loro e si organizza.

Per Bersani, “abbiamo perso perché abbiamo perso il contato con la realtà che non è quella che Renzi ci sta raccontando” …

E’ più o meno quello che intendevo dire quando ho detto che il Pd ha perso il rapporto con la società. Più che con la realtà, si è perso il contatto con la società vera, quella fatta di dolore, sofferenza e preoccupazione. Questa società non si riconosce né nel Pd né nel presidente del consiglio.

Sempre Bersani ha detto: “Noi appariamo troppo spesso quelli dell’establishment”. Non lo trova inevitabile per un partito di governo?

Certamente, purché non si sia soltanto i rappresentanti dell’establishment. Quando ha vinto, il Pd ha ottenuto i consensi tanto dei ceti forti quanto di quelli deboli.

Alle Comunali invece che cosa è successo?

Alle comunali il consenso del Pd è venuto prevalentemente dai quartieri benestanti, mentre è mancato nei quartieri disagiati. Questo fatto denota un cambiamento di collocazione sociale del Pd. Quanti non hanno bisogno della politica hanno votato per il Pd, quanti ne hanno bisogno hanno votato per M5s.

 

Il Pd è diventato il partito dei ceti medio-ricchi?

Il Pd è diventato il partito dei ceti che non hanno bisogno della politica per vivere, cioè di quelli che hanno una loro autonomia economica, un loro “standing” sociale e vivono in quartieri tutto sommato funzionanti.

 

Perché dopo la sconfitta del Pd alle Comunali si ritorna a parlare di Italicum?

La Corte costituzionale dovrà pronunciarsi sulla nuova legge elettorale sulla base dell’eccezione avanzata dal tribunale di Messina o del ricorso che presenterà la minoranza parlamentare. A quel punto bisognerà valutare quali saranno le correzioni da fare, perché è inevitabile che la Consulta chieda delle modifiche. Quindi o si correggerà l’Italicum o lo si abbandonerà per una legge Mattarella, magari rivista senza lo scorporo.

 

La sconfitta alle Comunali induce anche a fare i conti con il referendum costituzionale?

Sono due cose distinte, io non le sovrapporrei. Per la gran parte degli italiani il referendum è un tema lontano, basti vedere il numero enorme di persone che sono ancora indecise. Un dato che comunque emerge è che non bisogna basare il futuro del governo sulla questione del referendum, perché sono due cose completamente diverse.

 

Eppure è proprio ciò che ha fatto Renzi dicendo che se perde il referendum se ne andrà.

Questa è un’altra questione; dopo il referendum Renzi deciderà se andarsene o meno. Dovrebbe dire che non va via qualunque sia l’esito del referendum.  In modo che si voti solo sulla riforma. Porre però questo come quesito alle urne è sbagliato perché si rischia di votare su Renzi anziché sul referendum.

 

(Pietro Vernizzi)