La batosta elettorale ha rotto l’argine. E adesso contenere la marea montante della protesta sarà davvero arduo. Per la prima volta la minoranza interna è scesa in campo, portando la sfida nel cuore del renzismo, che ha conosciuto alle amministrative il punto più basso della sua sinora breve storia.

Fa sul serio Roberto Speranza quando minaccia di togliere la fiducia al governo in assenza di un netto cambio di rotta sulle questioni sociali? Probabilmente sì, perché sa di interpretare un sentimento diffuso fra i militanti. Sa di potersi esporre perché i D’Alema e i Bersani hanno usato toni e parole ancora più sprezzanti delle sue, con l’ex premier che si è spinto ad annunciare il suo no al referendum costituzionale, dopo aver blandamente respinto il sospetto di aver favorito l’ascesa al Campidoglio di Virginia Raggi. 



Il Pd che si agita come un formicaio impazzito è ben rappresentato dal ministro Marianna Madia che chiede la testa del commissario del partito a Roma, Matteo Orfini, che però è anche il presidente nazionale dei democratici. Richiesta censurata come inopportuna dal numero due di Largo del Nazareno, Lorenzo Guerini, costretto a un superlavoro difensivo degno del miglior Bonucci, tanto per rintuzzare Madia, quanto Speranza. 



Dal canto suo Renzi non ha negato la sconfitta, e sa che deve correre ai ripari. In caso contrario, la china discendente verso la sconfitta al referendum sarebbe irreversibile. Intorno a lui si agitano molti fantasmi. C’è chi sospetta il ministro della Cultura Dario Franceschini di tramare per scalare il partito, c’è chi ragiona su governi a guida Padoan o Grasso in caso di batosta autunnale. E c’è chi spinge per intervenire al più presto sul punto più controverso della legge elettorale: spostare il premio di maggioranza dalla lista più votata alla coalizione, per avere una chance in più di battere i 5 Stelle in un eventuale ballottaggio. Il rinnovo dei sindaci ha dimostrato, infatti, che nello scontro frontale i grillini sono nettamente favoriti (19 vittorie su 20 ballottaggi).



Servono alleati a Renzi, ed è un messaggio che — nel più classico stile della prima repubblica — gli inviano anche gli uomini di Ncd e i verdiniani di Ala, che hanno mandato subito sotto il governo in Senato per dimostrare la rilevanza del loro peso politico.

In direzione, insomma, Renzi è atteso a una vera e propria resa dei conti. Chi lo ha sentito spiega che non farà sconti, neppure a se stesso. Si prenderà la sua parte di responsabilità, ma è intenzionato anche a richiamare che il cambio di passo che gli viene sollecitato non potrà limitarsi a rispolverare vecchi riti come i caminetti intorno a cui riunire i rappresentanti delle varie correnti. Qualche inserimento nella segreteria ci potrà essere, per dar più peso ai territori, ma si tratterà di un ritocco secondario.

Il fulcro del messaggio che Renzi ha in testa è costituito da un rilancio dell’azione di governo. Una sfida a recuperare su temi come povertà e periferie, apparsi come vere emergenze nel voto di domenica. Un dato su tutti: la vittoria a Roma solo nei due municipi “dei ricchi”, il Centro e i Parioli, mentre i 5 Stelle a Tor Bella Monaca sfioravano l’80%. Pesano come un macigno le parole di Prodi: secondo il fondatore dell’Ulivo è mancata attenzione all’ingiustizia sociale. E quindi serve più sinistra, non meno sinistra, qualcosa che bilanci gli applausi degli imprenditori e il sì di Confindustria alle riforme costituzionali. 

Sulla legge elettorale la riflessione è in corso, come spiega il responsabile Riforme Emanuele Fiano, ma probabilmente servirà tempo. Lunedì scorso è stato lo stesso premier a confermare che cambiare l’Italicum non è un tema all’ordine del giorno, anche perché il timore nemmeno troppo nascosto è che cominciare a parlare di modifiche porti all’esplosione delle richieste e alla loro ingestibilità. Lo scenario più probabile è che sul punto Renzi prenda tempo, pronto a delegare a un’iniziativa parlamentare il tentativo di modificare il testo, che sarà formalmente in vigore dal prossimo primo luglio.

Certo, non è detto che Renzi sia pronto a celebrare il funerale della sua idea di “partito della nazione”, ma è un fatto che il suo tocco magico appare svanito. E che i 5 Stelle si siano rivelati ai ballottaggi assai più aggreganti del suo Pd. Del resto, a forza di irridenti battute alla “ciaone” è difficile andare lontano.

Un renziano della prima ora dotato di elevato senso critico come Matteo Richetti ha avvisato Renzi di guardarsi poi dal proprio “cerchio magico”, che in questo caso è un “giglio”, visto l’altissimo tasso di toscanità. Ha ricordato come collaboratori non all’altezza abbiano provocato danni irreparabili ad altri leaders come Bossi e Berlusconi. Insomma, lo ha invitato a cambiare la squadra, a non chiudersi in un fortino assediato. 

Il dito nella piaga lo ha messo anche il candidato sconfitto a Roma, Roberto Giachetti. Il punto, per lui, è che il Pd deve diventare di nuovo attrattivo, mentre oggi risulta respingente non solo agli elettori, ma anche per molti militanti. Invertire questa rotta per Renzi non sarà affatto un’intesa facile.