Piove sul bagnato, dice un vecchio adagio. La Brexit dopo la batosta alle amministrative. E il terrore di finire come Cameron al referendum di autunno, fuori gioco sull’onda di una spinta popolare contraria che sta diventando difficile da arginare. Matteo Renzi deve correre ai ripari, e ha poco tempo per farlo. Per via della tempesta in arrivo da Londra la direzione del Pd è stata rinviata, ma il problema è solo lievemente slittato.



Di fronte ha un partito in rivolta, e un appuntamento elettorale sempre più a rischio. Con i suoi collaboratori Renzi ha riflettuto a lungo sugli errori del collega britannico Cameron, che si è fatto travolgere da una consultazione che lui ha voluto e che ha avuto tre anni di tempo per preparare. L’argomentazione che certi temi complessi non possono essere sottoposti agli elettori è stata bocciata come incomprensibile ed elitaria. E’ necessario piuttosto trovare il tempo ed il modo di spiegarsi e convincere.



Certo, la prospettiva referendaria ha preso una brutta piega. Come a Londra il voto ha assunto un valore politico, che è andato ben oltre il suo contenuto specifico. Anche in Italia si voterà allo stesso tempo sulla riforma costituzionale, sulla legge elettorale collegata, e sul governo (e sul premier) che ha legato le sue sorti a quel “sì”. 

Nel ventaglio delle ipotesi vi sono alcune contromisure tattiche, ed altre scelte strategiche. La prima è lo slittamento sempre più probabile della data del referendum confermativo da ottobre verso dicembre, sfruttando il lasso massimo di tempo concesso dalla normativa. Questo consentirebbe di attenuare gli effetti dei rovesci di giugno e, allo stesso tempo, di mettere al riparo da scivoloni la legge di stabilità. 



Troppo poco per vincere però. Renzi deve compiere una scelta fondamentare: l’armageddon, ma potrebbe essere troppo tardi, oppure la discesa (graduale) dei toni. Non gliel’ho ordinato il medico di dichiarare che se perde lascia la politica. La corda l’ha tirata lui, e non è detto che gli sarà consentito allentarla. Il premier si è reso perfettamente conto che gli inviti a rimanere a Palazzo Chigi anche in caso di sconfitta venuti dai 5 Stelle e dal centrodestra sono pelosi e interessati. Mirano ad andare al voto con un presidente del Consiglio dimezzato e con le mani legate. Sino a prima dei ballottaggi, infatti, il suo piano B, in caso di sconfitta, era quello di favorire la nascita di un governo tecnico, chiamato a rattoppare la legge elettorale, mentre lui aveva le mani libere per guidare la riscossa del Pd, di cui sarebbe rimasto segretario.

La débâcle delle amministrative (e la Brexit) cambia tutto. Il suo partito è una pentola a pressione pronta a esplodere, e non gli sarebbe consentito rimanere segretario in caso di sconfitta al referendum. In troppo affilano le armi: dai D’Alema ai Bersani, ai Cuperlo agli Speranza, mentre sullo sfondo torna a intravedersi la sagoma di Enrico Letta.

Un’arma per allentare la tensione Renzi l’avrebbe, ma tentenna. Ormai lui e la Boschi sembrano essere rimasti gli unici a difendere l’intoccabilità dell’Italicum. Il fronte dei favorevoli a una riforma va da Franceschini (che ha rialzato la serranda della sua corrente), alla minoranza Pd, da Alfano, a Verdini e Berlusconi. La modifica che viene suggerita è quella di spostare il premio di maggioranza dal partito più votato alla coalizione, così da rendere la vita più dura ai 5 Stelle, Aggregando il centro. E magari consentendo anche apparentamenti fra primo e secondo turno, per favorire “convergenze repubblicane” alla francese. Sin qui Renzi è stato frenato dal timore che si possa aprire un vaso di Pandora di richieste di modifiche ingestibili e contrastanti fra di loro. E forse la sua recondita speranza è che sia la Corte Costituzionale il 4 ottobre, indicando i punti di debolezza della legge elettorale, a levargli le castagne dal fuoco e a indirizzare la possibile revisione.

Nel frattempo dallo scacchiere europeo il premier si attende un recupero di protagonismo sulla scena internazionale. La Brexit obbliga alla creazione di un direttorio a tre, con Francia e Germania. E la mossa di andare a discutere con Hollande prima di vedere la Merkel può rivelarsi efficace per evitare il ricrearsi in questa fase del solito asse privilegiato Parigi-Berlino. In fondo, la cancelliera non può pensare di farcela da sola. Con la sponda francese, ragiona Renzi, potrebbe essere più facile convincerla a sostanziali concessioni in tema di flessibilità economica e di sostegno alla ripresa. 

I due piani, nazionale ed europeo, finiscono insomma per intersecarsi. Non è affatto scontato che la risposta al referendum inglese sia efficace, ma se lo sarà anche Renzi ne avrà un riscontro positivo, tanto di immagine, quanto di margini di manovra in vista della manovra economica d’autunno. Senza una duplice reazione sui due piani, al contrario, il serio rischio è che, dopo il referendum sulla Brexit, quello italiano si trasformi in una consultazione sulla Renxit.