Persino gli inglesi sono preoccupati in questo periodo. Non solo per la Brexit, l’eventuale uscita dall’Unione Europea, ma soprattutto per la scarsa sensibilità dei giovani verso le istituzioni democratiche. Circa sei milioni di nuovi elettori avrebbero diritto al voto, proprio nel referendum sulla Brexit che si terrà il 23 giugno. Ma nella democratica Gran Bretagna, dove per votare ci si deve iscrivere alle liste elettorali, un milione e mezzo di giovani potenziali elettori sinora non ci ha neppure pensato.



Nonostante la democrazia abbia uno stomaco di ferro, che digerisce tutto, non c’è dubbio che in questo momento storico stia soffrendo in tutto il mondo, appaia meno credibile come sistema e, per alcuni, sembri addirittura impotente a risolvere i problemi delle persone, dei cittadini di fronte alla logica dispotica dei grandi poteri economico-finanziari. Non è la prima volta nella storia delle società democratiche che questo avviene e c’è da augurarsi che sia un fatto limitato nel tempo, che appartiene a fasi fisiologiche. Vedremo.



I numeri della partecipazione al voto nelle “democrazie mature” erano piccoli e rimangono ancora piccoli. La delusione si legge più nelle dichiarazioni delle persone e nella sfiducia verso la classe dirigente di tanti Paesi.

In questa generale disaffezione, c’è però un’atipicità italiana che rischia di diventare pericolosa per la stabilità sociale e politica del Paese. Ogni democrazia ha una sua storia e le sue caratteristiche. Qui non c’è solo delusione nelle dichiarazioni e sfiducia dilagante. In Italia la democrazia, che ha compiuto i 70 anni, è vissuta ed è stata costituzionalmente formata e sostenuta da una massiccia partecipazione alle elezioni, alla vita pubblica, attraverso i partiti, le associazioni e i cosiddetti corpi intermedi.



Era inevitabile che, con il crollo delle ideologie, si verificasse un mutamento, un ripensamento di obiettivi, scopi, ideali con la formazione di nuovi soggetti politici. Ma lentamente, nel giro di 25 anni, si è perso più del dovuto e la partecipazione popolare al voto e alla vita politica non si è allineata (come si dice spesso superficialmente) a quella fisiologica delle democrazia mature, ma piuttosto è ultimamente precipitata verso una sorta di democrazia dell’indifferenza, con una partecipazione di bassissima percentuale alle ultime consultazioni elettorali.

Un esempio: alle ultime regionali parziali, in Emilia Romagna, è andato alle urne meno del 40 per cento del corpo elettorale. E’ evidente che, se si ripetesse domenica una simile affluenza ai seggi, ci sarebbe un’immagine deformata della rappresentanza politica a tutti i livelli e quindi anche nei consigli comunali che sono sempre stati un banco di prova determinante nella storia delle democrazie. Complicato, anche se formalmente legittimo, difendere la governabilità assicurata dal 25 per cento di un corpo elettorale che si presenta al 50 per cento alle urne. Siamo alle maggioranze del 12,5 dei potenziali elettori! 

Ma tale è l’incubo, tale è diventato il rischio che si corre in questa campagna amministrativa che interessa 1.300 comuni e città importanti come Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna. In sintesi, per scacciare i cattivi pensieri, pensando che la percentuale emiliana dell’ultima tornata elettorale sia legata solo a problemi contingenti e particolari, ci si augura che la percentuale dei votanti sia molto più alta. Anche se si da quasi per scontato un forte calo dei votanti.

In definitiva, a che cosa è dovuto questa incubo, questa paura che è emersa dai giornali e dalle televisioni in questi ultimi giorni? Basta guardare la storia di questi ultimi 25 anni, dove accanto alla denuncia di scandali e di costi, indubbiamente smisurati e spesso inaccettabili della politica, si è assistito a una riedizione della demonizzazione della politica quasi come al tempo del fascismo, quando si arrivava a scrivere a caratteri cubitali in alcuni luoghi “Qui non si fa politica”. In più, si avverte nella “giovane” democrazia italiana una sfiducia nella tradizione democratica rappresentativa, con una serie di innovazioni immaginifiche che lasciano abbastanza stupefatti: il voto on line, la richiesta di democrazia diretta sempre più insistente, ignorando l’essenza della democrazia rappresentativa tradizionale, “il paradosso che funziona” (Joseph Schumpeter), che è sempre stata considerata “il male minore” tra tanti sistemi imperfetti, come ribadiva Winston Chrchill.

Sperando che questo incubo di astensionismo non si verifichi né il 5 giugno, né il 19, quando si dovrebbero svolgere i ballottaggi, sembra necessario fare tre considerazioni per spiegare il timore di questa possibile “fuga dalle urne”.

Spesso in Italia si sentono esponenti politici o diversi “maestri del pensiero” che si arrogano il diritto di accusare gli avversari o, in genere, gli “altri”, di alimentare “l’antipolitica”. Il problema di misurarsi anche con le posizioni più strampalate, o demagogiche, è sempre stato affrontato nelle democrazie con la persuasione e l’autorevolezza degli argomenti, non con l’autoreferenzialità, la condanna o una battuta di semplice discredito. La sostanza è che in questo sconveniente “derby” tra politica e antipolitica non ci guadagna nessuno, se non chi non si fida più della politica, intesa come “arte del possibile” e capacità di trovare compromessi accettabili ai problemi sociali ed economici che ogni società, ogni comunità deve affrontare in ogni tempo e in ogni epoca.

C’è una seconda considerazione da fare. Quella di “relegare” addirittura la politica in un angolo della storia e di sostituirla con la grande competenza dei tecnocrati. Non a caso, c’è chi dice che siamo ormai in una fase che si può definire “post-politica”. Forse ci sbaglieremo noi, ma la politica con “tutta la sua sporcizia”, la “politica sangue e merda”, come diceva Rino Formica, resta un fatto fondamentale delle società umane, che ha scandito nel bene o nel male le differenti fasi della storia. 

 Chi ha cercato di sostituire la politica è sempre andato incontro a disastri inenarrabili o al “Periodo dei torbidi”, restando poi nella convinzione che la frase famosa di Georges Clemenceau “La guerra è una cosa troppo seria per farla fare solo ai generali”, si adatti anche alla politica, troppo seria per farla fare solo ai tecnici.

Si pensi per un attimo a quello che è stato il cambio brusco del 1992, allo sbilanciamento dei poteri dello Stato, alla liquidazione di un’intera classe dirigente, al mancato ricambio e al ruolo che hanno avuto i media, nel raffigurare la politica solo come “casta” e che oggi sono tanto preoccupati per un’astensione massiccia.

L’ultima considerazione ci riporta direttamente alle elezioni amministrative del 5 giugno. Sono sembrate quasi un fastidio da affrontare per questo governo e anche per molte forze politiche. L’impressione è che l’articolazione democratica che rappresenta l’ossatura di un grande Paese, sia passata in secondo piano. La decisione importante sembra sia solo quella che si prende dall’alto, mentre il valore di una democrazia di base, l’elezione di un consiglio comunale, è quasi un fatto limitato. Come è possibile che si siano trascurate queste amministrative a vantaggio del referendum di ottobre, creando addirittura una confusione comunicativa in chi va a votare? Alla fine non si venga a dare la colpa all’antipolitica di fronte a una simile scelta istituzionale e di governo.