Il disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi presenta molti aspetti critici. Alcuni di essi investono le direttrici principali della riforma (bicameralismo, rapporto Stato-Regioni, ecc.) e sono stati ampiamente dibattuti.

Ve ne è uno, forse meno evidente e di minor rilievo, che appare un po’ trascurato e che potremmo riassumere così: a cosa si riduce il Presidente del Senato nella nuova organizzazione costituzionale?



Per rispondere all’interrogativo occorre naturalmente partire dal sistema vigente, e dunque dal bicameralismo perfetto, dove il Senato rappresenta, se non altro per i requisiti di elettorato attivo e passivo, la camera più matura e riflessiva.

Il suo Presidente è scelto nei primi scrutini a maggioranza assoluta dei componenti, poi a maggioranza assoluta dei votanti e, a seguire, se occorra, mediante ballottaggio, con elezione di chi consegua la maggioranza, anche relativa, dei voti. Ciò consente, tra l’altro, di pervenire in tempi rapidi e certi all’elezione della carica che tra i suoi compiti ha quello di supplenza del Presidente della Repubblica in tutti i casi in cui questi non possa adempiere le funzioni. Proprio per questa ragione si è di fronte, non a caso, alla seconda carica dello Stato.



Ancora. Nel delicato caso di scioglimento anticipato delle Camere, il Capo dello Stato è obbligatoriamente tenuto a sentire il parere dei Presidenti di Camera e Senato.

Vediamo, dunque, in sintesi, cosa cambia con la riforma, se sarà approvata dal referendum.

Il Senato perde, com’è noto, la caratteristica di camera realmente politica ed è ricondotto a sede rappresentativa delle istituzioni territoriali, i cui componenti saranno frutto di un’elezione di secondo grado e non riceveranno una specifica indennità (dal momento che percepiranno quella spettante in quanto consiglieri regionali o sindaci).



Il ruolo di supplente del Capo dello Stato viene affidato al Presidente della Camera dei deputati.

Il Presidente del Senato è chiamato a convocare e presiedere il Parlamento in seduta comune solo in supplenza del Presidente della Camera quando questi eserciti le funzioni del Capo dello Stato. In quei casi, oltre tutto, egli dovrà presiederà l’assemblea coadiuvato da un ufficio di presidenza che non è quello del “suo” ramo (vale a dire quello da lui ordinariamente presieduto) e applicherà un regolamento (quello della Camera, salvo che il Parlamento in seduta comune non si doti di regole proprie) che potrebbe legittimamente non padroneggiare.

Risulta, poi, espressamente estromesso dalla funzione consultiva in ipotesi di scioglimento dell’unica camera elettiva, quella dei deputati.

Infine, a seconda di come si orienterà il nuovo regolamento del Senato (chiamato a stabilire in quali casi l’elezione o la nomina alle cariche negli organi interni possono essere limitate in ragione dell’esercizio di funzioni di governo regionali o locali), potrebbe essere magari individuato in una figura politica anche non di primissimo piano.

Appare difficilmente controvertibile, alla luce di tutto ciò, la sensazione che il Presidente del nuovo Senato sia quanto meno avviato a vedersi retrocedere di qualche posizione nella gerarchia delle alte cariche dello Stato. Ma anche ammesso che questo non disturbi più di tanto, rimane da verificare se il disegno di revisione sia conseguente con le premesse da esso stesso poste. E proprio a questo proposito sembra emergere un dubbio.

La riforma, è noto, abbandona il modello della funzione legislativa esercitata collettivamente dalle due Camere, ispirandosi a una logica ben diversa, incentrata su una pluralità di procedimenti (bicamerale in certi casi; monocamerale, per così dire, ordinario, in altri; monocamerale particolare in altri ancora, ecc.).

A parte il dubbio che ciò sia realmente in grado di snellire e semplificare la produzione delle leggi, dal momento che è lo stesso testo di riforma che pare a un certo punto dubitarne (il nuovo articolo 70 prospetta, seppur timidamente, “le eventuali questioni di competenza”), non senza qualche sorpresa si scopre come si immagina di porvi rimedio: una decisione d’intesa tra i Presidenti delle Camere.

Come se, poste quelle premesse, potesse davvero trattarsi di deliberazione frutto di un concorso “equilibrato” fra le due figure, in grado di offrire, lì, una sintesi bilanciata e rispettosa alle complesse questioni di competenza che con ogni probabilità affaticheranno i lavori dei due rami del futuro Parlamento.

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