Sulla scrivania di Sergio Mattarella l’allarme rosso era acceso da tempo, almeno dalla batosta rimediata dal Pd alle amministrative. Ma la lettura dell’intervista di Carlo De Benedetti, tessera numero uno del Partito democratico, ha confermato i timori peggiori: Renzi rischia grosso, e al referendum confermativo della riforma costituzionale i no hanno sempre più probabilità di dilagare. Meglio, allora, pregare un piano B, una exit strategy nel caso in cui le cose volgano al peggio.
Intendiamoci: il capo dello Stato tifa piuttosto apertamente per la vittoria del sì, sia per convinzione che per convenienza. Indubbio è un debito di riconoscenza verso Renzi, gli deve l’ascesa al Quirinale, come pure una sintonia che lo ha portato più volte a dire che il percorso riformatore merita di essere concluso in maniera positiva. Dal 31 gennaio 2015 lui però è presidente della Repubblica, quindi sa di doversi dimostrare al di sopra delle parti, e di conseguenza deve tenersi pronto a gestire una possibile vittoria del no nell’interesse del paese, e non nell’interesse dell’attuale presidente del Consiglio. Super partes, insomma.
Da un mese ormai gli scenari possibili vengono presi in esame con i suoi collaboratori al Quirinale. E un punto è dato per acquisito: è assolutamente da escludere l’ipotesi di un immediato ricorso alle urne, in caso di una bocciatura della riforma Boschi. A impedirlo la certezza dell’ingovernabilità, derivante dalla discrepanza fra le leggi elettorali della Camera (Italicum, formalmente in vigore dal 1° luglio scorso), e Senato (che sarebbe eletto con una legge proporzionale pura, risultante dalla sentenza del dicembre 2013 che ha bocciato il Porcellum) .
“In quel caso — sussurrano nei corridoi del Colle — spetterebbe a Renzi, in quanto segretario del Pd, indicare la soluzione praticabile per uscire dall’impasse”: definire oggi la formula di governo possibile in questo scenario è difficile e — a detta dei più — anche inutile: è prematuro. Si potrebbe andare da un Renzi bis, ma con una base parlamentare allargata a un ritrovato patto del Nazareno, sino a un governo istituzionale, che dipani rapidamente il groviglio delle regole per il voto, e traghetti il paese a elezioni anticipate nella primavera del 2017.
In questo caso il candidato più accreditato per guidare l’esecutivo sarebbe il presidente del Senato, Piero Grasso, ma qualche chances conserva l’attuale titolare dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Appartengono alla fantapolitica, almeno per il momento, altre ipotesi circolate negli ultimi giorni, dal nome di Dario Franceschini (si tratterebbe di una congiura di palazzo, che Mattarella faticherebbe ad avallare), a quello del governatore della Bce, Mario Draghi. Il mandato di quest’ultimo all’Eurotower scade il 31 ottobre 2019, e per il Quirinale il miglior servigio che può rendere al Paese è rimanere dove sta, sino all’ultimo giorno.



La moral suasion mattarelliana, quella che non si vede, ma si sente, sembra intanto provocare un ammorbidimento delle posizioni del presidente del Consiglio. Non è un mistero per nessuno che il capo dello Stato abbia un giudizio negativo sulla personalizzazione del referendum confermativo. Il consiglio al premier è stato quello di mostrare maggiore flessibilità. Tutt’altro facile per Renzi, che d’istinto si butterebbe anima e corpo nello scontro frontale. Eppure qualche crepa si vede, nelle parole del capo del governo dalla tribuna del vertice Nato di Varsavia, quando dice che il parlamento — se vuole — può modificare la legge elettorale. Una disponibilità condita con il veleno dell’osservazione che questa maggioranza per cambiare l’Italicum da Palazzo Chigi ancora non si vede. Eppure è proprio il combinato disposto dell’Italicum con la riforma costituzionale a far storcere il naso a molti, che vedono una concentrazione di potere eccessiva e senza contrappesi nelle mani del leader del partito che vince le elezioni. Ultimo a lanciare un monito su questo proprio De Benedetti.
Due le strade: o si modifica l’Italicum subito, spostando il premio di maggioranza dal partito più votato alla coalizione, oppure si aspetta che sia la Corte costituzionale a ottobre a indicare quali correttivi sono necessari alla legge. Il che potrebbe essere un comodo alibi per lo stesso Renzi.
Nell’ottica di evitare un muro contro muro in cui il governo ha tutto da perdere sale anche un’altra ipotesi, quella del cosiddetto spacchettamento della riforma costituzionale. Non un secco “prendere o lasciare”, ma la suddivisione del testo in una serie di quesiti omogenei, così da evitare la bocciatura secca. Un quesito, ad esempio, potrebbe riguardare il nuovo Senato, un’altro il nuovo assetto delle autonomie locali. Una bocciatura parziale potrebbe quindi avere un effetto politico molto limitato.
Anche al Quirinale si studia questa possibilità, che però non ha precedenti. E infatti lo stesso Renzi precisa che una decisione in merito spetterà alla Corte costituzionale e a quella di Cassazione. Ma potrebbe essere la situazione che salva capra e cavoli.

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