Ma quanto può durare questa situazione europea e di conseguenza quella del governo italiano? Ormai si accumulano studi e previsioni, le ultime arrivano “fresche fresche” da Barclays e descrivono un rischio sistemico per il Portogallo, a causa delle sofferenze nel sistema bancario e del debito eccessivo di quel Paese. Quindi non sono solo le banche italiane a essere a rischio e quindi a diventare la causa del possibile disastro, su cui in seguito scaricare colpe e responsabilità.
Forse la realtà è molto più semplice, ma, per alcuni tanto più complicata da ammettere: esiste una crisi delle banche europee che è sotto gli occhi di tutti gli analisti. In Portogallo e in Italia la causa sarà quella dei crediti problematici e “incagliati”, ma proprio in queste settimane il Fondo monetario ha acceso i fari sulle banche regionali tedesche, che avrebbero enormi problemi e sullo sfondo, come preoccupazione generale degli investitori e dei mercati, esiste sempre il problema della grande Deutsche Bank, che galleggia su un oceano di derivati, che molti ormai definiscono delle “scommesse a Las Vegas”.
E come la perla della “virtuosa” (per eccellenza) Germania ci sono le banche di altri Paesi del Nord che, in quanto a derivati, non scherzano affatto. Ci sarebbero poi dei dettagli che, in genere, i “cantori” della nuova Wermacht economica si dimenticano quasi sempre di raccontare. Secondo dati di Mediobanca, nei colossali bilanci di Deutsche Bank e di Commerzbank ci sono titoli tossici (quindi invalutabili) rispettivamente del 51,3 per cento e del 23,4 percento del loro patrimonio netto tangibile.
Quisquilie e pinzillacchere, avrebbe detto Totò. Meno ironici, appunto, gli investitori e gli analisti, anche se ci troviamo di fronte ai cosiddetti maestri della virtù finanziaria ed economica. Sarà curioso, un giorno, leggere come è ricollegabile questa crisi bancaria europea alla Brexit, a quell’atto di “abuso della democrazia” descritto dal nostro senatore a vita professor Mario Monti e da alcuni commentatori turistici del Corriere della Sera.
Questo è lo sfondo vero su cui si giocano non solo i destini economici del continente, lasciamo perdere la nobile dizione Unione Europea, e della stessa Italia, che Matteo Renzi, da giovane “rottamatore”, pensava di far ripartire in quattro e quattr’otto.
Il nostro giovane presidente del Consiglio, al momento, cerca un compromesso sulle banche con l’Europa, con Bruxelles, con i famosi commissari e con l’impareggiabile croupier del Lussemburgo, il più inutile dei presidenti di Commissione. Alla fine il compromesso si troverà, per la situazione bancaria che abbiamo brevemente descritto (conviene a tutti), ma servirà a passare questa torrida estate e un pezzo di autunno.
Poi arriveranno una serie di scadenze. I dati sulla “crescita” (si fa dire) e sulla disoccupazione. Le revisione al ribasso del Pil, già fornita in questi giorni e il paventato, anche se non precisato, “caos” politico ( con relativo crollo del Pil) previsto da Confindustria con la vittoria del “no” al referendum costituzionale.
Un sussulto di patriottismo per le riforme costituzionali da parte di quella che un tempo Giorgio Amendola chiamava “borghesia stracciona” e che veniva così definita anche da qualche grande banchiere di un’altra Italia.
Il problema vero di Renzi è che sembra veramente arrivato al capolinea. Perché ci si può contrabbandare per “rottamatore”, si può promettere per qualche tempo, si può anche infischiarsene del partito perché la sinistra in Europa, anche quella democratica e riformista mai popolare in Italia, è ormai come una polverosa canzone degli anni venti del Novecento. Ma non si può spaccare persino la base dell’ultima piattaforma su cui si è costruito una specie di partito postcomunista e post-cattocomunista.
A parte i cataclismi che prevede Confindustria, il fronte del “no” adesso registra una novità di valenza politica non secondaria.
A capo del “no” non c’è più solo il comitato dei professori e dei costituzionalisti attempati, non c’è solo la sinistra generica e raffazzonata, il grillismo parolaio, ma un protagonista, discusso e discutibile, ma pur sempre un leader di ben altra consistenza politica: Massimo D’Alema.
Non saremo certo noi a difendere un protagonista della “seconda repubblica” che ha avuto gravi responsabilità e non solo sui “capitani coraggiosi”. Ma occorre cogliere il significato di una discesa in campo così “rumorosa” di un personaggio che ha collegamenti non solo di carattere nazionale e che può rappresentare il punto di riferimento di un’Italia scontenta e delusa da una crisi che dura da nove anni ininterrottamente.
E’ come se si fosse arrivati, con questo referendum tanto “sbandierato” fino a qualche tempo fa da Renzi, a una sorta di redde rationem tra scelte politiche a livello nazionale e internazionale.
Molti hanno notato in questi giorni dei toni più soft di Renzi, anche sul suo famoso “abbandono” dalla vita politica. Forse il problema non è solamente bancario, ma più generalmente politico.
In effetti le scadenze di autunno sono tante, forse anche troppe. Mentre qualcuno immaginava nuovi referendum sulla Brexit, bisogna andare a referendum in Austria e in Ungheria, occorre vedere che consistenza assume in Germania l’anti-sistema di destra, bisogna constatare che cosa succede al di là dell’Atlantico, nello scontro tra la signora Clinton e Donald Trump.
Due giorni prima di quell’8 novembre americano, si dovrebbe votare per il nostro referendum costituzionale. E’ tutto troppo complicato e, magari, qualche cosa sarà già aggiustato da diverse mani, oppure si tenterà di aggiustarlo.
Tuttavia, se si incrociano le sofferenze bancarie europee, i possibili compromessi, l’ennesima delusione di crescite ritardate o rinviate, la possibile vittoria del “no”, ci si può aspettare, prima che si arrivi alle elezioni francesi dell’anno venturo, anche a un possibile governo di transizione italiano (magari rassicurante per gli europei) targato Pier Carlo Padoan e poi la svolta europea vera. Quella di un’Europa con doppio euro o a doppia velocità.