Per il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, il 25 luglio 2016 deve essere considerato come un giorno infausto. Non perché il Gran Consiglio del Pd (sigla per indicare Partito Diviso) o qualche altro organo lo abbiano defenestrato, ma poiché nei sondaggi si è verificato lo switchinh value: i No al referendum (ancora non proclamato) hanno superato i Sì. Qual è la goccia che ha fatto traboccare il vaso? Proprio nel giorno della scadenza perentoria del 730 (e quindi quantomeno di pagamenti di “anticipi” per l’imposizione tributaria del prossimo anno), si approssima il versamento dell’imposta più odiata dagli italiani: il canone Rai. E al danno si aggiunge la beffa: la pubblicazione dei maxi-stipendi Rai anche di volti una volta di punta (non si sa perché), ma da anni senza incarico.
È normale – dicono gli psicologi e gli studiosi dell’economia comportamentale – che gli elettori considerino tutto ciò insulto che si aggiunge al danno (di pagare sia come contribuenti in generale, sia tramite l’imposta di scopo) e, quindi, a torto o a ragione, se la prendano con chi è al Governo, quale che sia la sua parte politica, anche se in questo caso è semplicemente erede di una “mela avvelenata” servitagli in passato.
Come cantava Rita Pavone in Giamburrasca nella televisione ai tempi della Rai diretta da Ettore Bernabei, un popolo affamato / fa la rivoluzion. E in un Paese che ristagna e nelle classifiche europee è penultimo (prima solo della malridotta Grecia), per gran parte degli italiani fare la rivoluzion vuol dire, a ragione o a torto, mandare a casa gli inquilini di palazzo Chigi. Soprattutto se si sono impegnati a cercare un lavoro distinto e distante dalla politica. Chi viaggia verso il No, aggiunge un lavoro “da comune mortale”. Il “caso Rai” sta avendo un effetto tale nei sondaggi non solo perché le retribuzioni superano mediamente del 40% quelle in organizzazioni simili del resto d’Europa, ma per i casi di dipendenti che, accantonati da tempo, fruiscono, pur nella posizione “senza incarico”, di stipendi che i “comuni mortali” considerano, a ragione o a torto, da sogno.
A palazzo Chigi si sta correndo ai ripari con un decreto che fissi un tetto analogo a quello dei compensi dei dirigenti pubblici e delle autorità di garanzia. In effetti, tale tetto esisteva, ma è stato rimosso quando la Rai ha emesso obbligazioni per 350 milioni di euro. Basta emettere obbligazioni per uscire dal “perimetro pubblico”? Tanto più che la Rai è una Società per azioni a totale partecipazione pubblica che non solamente si finanzia in parte con un’imposta di scopo, ma con la quale lo Stato, tramite il ministero dello Sviluppo economico, stabilisce un contratto di servizio per stabilire le attività di servizio pubblico nel territorio della Repubblica. E inoltre è controllata da una Commissione Parlamentare, il suo Consiglio d’Amministrazione è di nomina pubblica e uno dei componenti è indicato direttamente dal ministro dell’Economia e delle Finanze.
Matteo Renzi e il Governo dovrebbero ripetere il blitz fatto lo scorso novembre con la Scuola nazionale dell’amministrazione, la cui giungla retributiva assomigliava a quelle dei romanzi di Salgari. Basta prendere il Dpcm del 25 novembre 2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 19 dicembre 2015, e adattarlo alla Rai. Ai suoi dipendenti si applicherebbero la normativa e le retribuzioni del pubblico impiego con un tetto identico per i vertici e una soluzione per i “senza incarico”. Facendo salvi coloro che i tribunali del lavoro giudicheranno soggetti amobbing, ai “senza incarico” verrebbero offerti tre incarichi (non necessariamente al livello stipendiale in atto); al terzo rifiuto, verrebbero inviati a fare valere la loro professionalità su quel mercato a cui “Mamma Rai” dice di ispirarsi. Ciò potrebbe minimizzare il “rischio Rai” per Renzi. Tanto più che “il partito Rai” fa solo finta di volergli bene e, se i sondaggi non sono per lui incoraggianti, non aspetta altro che scaricarlo.